ENEIDE
LIBRO IV
RIASSUNTO
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Iarba, re
africano, figlio di Giove, viene rifiutato come sposo da Didone, la
stessa donna che aveva accolto nella sua terra come profuga insieme ai suoi
concittadini
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Viene
a sapere inoltre del connubium (matrimonio) che si terrà tra la regina
ed Enea (che chiama qui “il nuovo Paride”)
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Iarba
si lamenta con il padre Giove, che manda Mercurio,
messaggero degli dei, da Enea con l’incarico di ricordargli il suo
destino e il suo compito di sub leges mittere orbem, “sottomettere
il mondo alla legge”, per il quale la madre Venere lo ha salvato due volte
dalle armi dei greci
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Mercurio
sorvola la catena di Atlante, arriva dall’eroe che incalza con aspre parole
e lo incita a partire svelto verso l’Italia (lo beffeggia
addirittura chiamandolo uxorius, “sottomesso ad una donna”)
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L’apparizione
punitiva del dio fa
spaventare Enea, la stessa paura che ha per la reazione di Didone
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Qui
si raggiunge l’akmè, il rivolgimento
della situazione iniziale, passaggio narrativo proprio della tragedia
per cui una situazione iniziale di equilibrio viene sconvolta e portata
all’estremo, solo dopo si ristabilisce un nuovo ordine con il cambiamento o la
perdita di qualcosa, segnato dal passato
-
Enea
obbedisce consapevolmente all’ordine divino, cosciente del dramma della
donna e suo
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L’addio »
nell’ultimo colloquio i due amanti appaiono chiusi ad ogni possibilità di
comunicazione
» si parlano ma questo non
è un vero dialogo, ognuno porta avanti la sua argomentazione
che è incompatibile con
quella dell’altro
» mentre Enea
è proiettato verso la sua missione, Didone è come impietrita
nel dolore
» Didone fa emergere la sua
parte femminile: sentimenti teneri e supplici, desideri materni
» Enea risponde con l’ossequio a
una volontà superiore (portatore di valori più alti)
» i toni della regina si
fanno più aspri: sarcasmo, accuse, minacce, amore mutato in odio
» l’odio si protrae per
l’eternità insieme all’incapacità di comunicazione (incontro agli inferi)
OSSERVAZIONI
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Tragedia
di Didone è comunque inserita in un poema epico (non è un testo
teatrale)
» svolta di inserire la tragedia in un testo epico è attuata dal greco Apollonio
Rodio
» in età ellenistica scrive un testo
epico più aperto agli altri stili e soprattutto al pathos ma esagera
» solo Virgilio però è capace di
accogliere sollecitazione extra genere e di controllarle
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Enea
rimane unico grande protagonista, incarnazione di valori così fondamentali
da superare tutto
» per alcuni critici Enea appare freddo,
rigido, incapace davanti ai sentimenti umani
» Enea è invece amante fino in
fondo del destino, del suo compimento, della felicità completa per
cui mette il sentimento a servizio
della ragione e non il contrario
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Enea » afferma che
la vita è un cammino e perseguirlo ti porta al destino, cioè al
tuo compimento
» questa consapevolezza viene maturata
attraverso il dolore e la delusione davanti al fallimento
dei progetti umani davanti
a quelli divini (nelle tappe pensava sempre di essere arrivato)
» le circostanze si rivelano un
ostacolo perché il suo destino non viene da un suo progetto
» la scelta di seguire la meta si
rinnova ad ogni passo, non è una decisione definitiva, ma un
cammino, ad ogni tappa decide
sempre di fidarsi della volontà divina e rinunciare a sé
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Didone » concezione
del destino diversa da quella di Enea
» come una donna moderna, ha
una duplice dimensione: personale (donna) e politica
(regina)
» è responsabile di sé e del
suo popolo, Enea risponde ad entrambe le dimensioni (lo ama
come donna, è in grado di
proteggere tutta Cartagine dai paesi confinanti a lei nemici)
» la partenza di Enea la
distrugge sia come donna che come regina
» non accetta le
conseguenze del destino (modello della letteratura tragica)
» come Francesca (V canto, Dante)
si strugge tra sentimento e ragione, per poi cedere al 1°
» viene descritta la sua
ferita del cuore, che ha il carattere di un’ustione
TESTO LATINO
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TRADUZIONE
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DE DIDONIS
INTERVENTU (4.296-330)
At regina dolos quis fallere possit amantem? 4.296 praesensit, motusque excepit prima futuros omnia tuta timens. eadem impia Fama furenti detulit armari classem cursumque parari. saevit inops animi totamque incensa per urbem bacchatur, qualis commotis excita sacris Thyias, ubi audito stimulant trieterica Baccho orgia nocturnusque vocat clamore Cithaeron. tandem his Aenean compellat vocibus ultro: “dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum posse nefas tacitusque mea decedere terra? nec te noster amor nec te data dextera quondam nec moritura tenet crudeli funere Dido? quin etiam hiberno moliri sidere classem et mediis properas Aquilonibus ire per altum, 4.310 crudelis? quid, si non arva aliena domosque ignotas peteres, et Troia antiqua maneret, Troia per undosum peteretur classibus aequor? mene fugis? per ego has lacrimas dextramque tuam te quando aliud mihi iam miserae nihil ipsa reliqui, per conubia nostra, per inceptos hymenaeos, si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquam dulce meum, miserere domus labentis et istam, oro, si quis adhuc precibus locus, exue mentem. te propter Libycae gentes Nomadumque tyranni odere, infensi Tyrii; te propter eundem exstinctus pudor et, qua sola sidera adibam, fama prior. cui me moribundam deseris hospes hoc solum nomen quoniam de coniuge restat? quid moror? an mea Pygmalion dum moenia frater destruat aut captam ducat Gaetulus Iarbas? saltem si qua mihi de te suscepta fuisset ante fugam suboles, si quis mihi parvulus aula luderet Aeneas, qui te tamen ore referret, non equidem omnino capta ac deserta viderer.´ 4.330 DE AENEAE RESPONSO (4.331-461) Dixerat. ille Iovis monitis immota tenebat lumina et obnixus curam sub corde premebat. tandem pauca refert: ´ego te, quae plurima fando enumerare vales, numquam, regina, negabo promeritam, nec me meminisse pigebit Elissae dum memor ipse mei, dum spiritus hos regit artus. pro re pauca loquar. neque ego hanc abscondere furto speravi ne finge fugam, nec coniugis umquam praetendi taedas aut haec in foedera veni. me si fata meis paterentur ducere vitam auspiciis et sponte mea componere curas, urbem Troianam primum dulcisque meorum reliquias colerem, Priami tecta alta manerent, et recidiua manu posuissem Pergama victis. sed nunc Italiam magnam Gryneus Apollo, Italiam Lyciae iussere capessere sortes; hic amor, haec patria est. si te Karthaginis arces Phoenissam Libycaeque aspectus detinet urbis, quae tandem Ausonia Teucros considere terra invidia est? et nos fas extera quaerere regna. 4.350 me patris Anchisae, quotiens umentibus umbris nox operit terras, quotiens astra ignea surgunt, admonet in somnis et turbida terret imago; me puer Ascanius capitisque iniuria cari, quem regno Hesperiae fraudo et fatalibus arvis. nunc etiam interpres diuum Iove missus ab ipso testor utrumque caput celeris mandata per auras detulit: ipse deum manifesto in lumine vidi intrantem muros vocemque his auribus hausi. desine meque tuis incendere teque querelis; Italiam non sponte sequor.´ DE REGINAE DIDONIS DESPERATIONE 362-392
Talia dicentem iamdudum
aversa tuetur 4.362
huc illuc volvens oculos totumque pererrat luminibus tacitis et sic accensa profatur: ´nec tibi diua parens generis nec Dardanus auctor, perfide, sed duris genuit te cautibus horrens Caucasus Hyrcanaeque admorunt ubera tigres. nam quid dissimulo aut quae me ad maiora reservo? num fletu ingemuit nostro? num lumina flexit? num lacrimas victus dedit aut miseratus amantem est? quae quibus anteferam? iam iam nec maxima Iuno nec Saturnius haec oculis pater aspicit aequis. nusquam tuta fides. eiectum litore, egentem excepi et regni demens in parte locavi. 4,374 amissam classem, socios a morte reduxi heu furiis incensa feror: nunc augur Apollo, nunc Lyciae sortes, nunc et Iove missus ab ipso interpres divum fert horrida iussa per auras. scilicet is superis labor est, ea cura quietos sollicitat. neque te teneo neque dicta refello: 4.380 i, sequere Italiam ventis, pete regna per undas. spero equidem mediis, si quid pia numina possunt, supplicia hausurum scopulis et nomine Dido saepe vocaturum. sequar atris ignibus absens et, cum frigida mors anima seduxerit artus, omnibus umbra locis adero. dabis, improbe, poenas. audiam et haec Manis veniet mihi fama sub imos.´ his medium dictis sermonem abrumpit et auras aegra fugit seque ex oculis avertit et aufert, linquens multa metu cunctantem et multa parantem dicere. suscipiunt famulae conlapsaque membra marmoreo referunt thalamo stratisque reponunt. |
LAMENTO DI
DIDONE
Ma la regina (chi potrebbe
ingannare un amante?)
presentì, per prima apprese
gli avvenimenti futuri
temendo di tutto quello di
cui era certa. La stessa empia Fama riportò a lei che era già invasa dalla
furia della follia,che veniva preparata la flotta e ci si apprestava alla
partenza. Priva di sé e furente, vaga correndo invasata per la città, come
Tira evocata dai riti sacri, quando, ascoltato Bacco, la eccitano le orge
triennali e di notte il Citerone la chiama con il frastuono.
infine di sua iniziativa si
rivolge ad Enea gridando così:
“Hai sperato, o perfido, di
poter dissimulare una tale infamia, e senza dir nulla di allontanarti dalla
mia terra?
non ti trattengono il
nostro amore, né la mano che un giorno mi hai dato né Didone destinata ad una
morte crudele? Anzi, anche in inverno allestisci la flotta e ti affretti ad
andare al largo in mezzo agli Aquiloni, o crudele? E che? Se non cercassi
terre straniere e dimore ignote e rimanesse in piedi l’antica Troia,
torneresti a Troia per il mare tempestoso? Ti allontani da me? Ti prego per
queste lacrime, per la tua promessa data, (poiché io stessa non lasciai
null’altro a me misera), per il nostro connubio, per i responsali che abbiamo
iniziato, se ho avuto qualche merito di te, se qualcosa di me ti è stato
dolce, ti prego di abitare questa casa che crolla e abbandona questa decisione
se c’è ancora una possibilità per le mie preghiere. Per te mi odiano i popoli
libici e i tiranni dei Numidi, gli abitanti di Tiro mi sono ostili; sempre
per causa tua è venuto meno il pudore e la stima che avevo prima, solo per la
quale venivo elevata alle stelle. A chi mi abbandoni, ospite, solo questo
nome da marito mi resta? Perché indugio? Forse finché il fratello Pigmalione distrugga
le mie mura o il gaetulo Iarba mi faccia prigioniera? Se avessi avuto prole
natami da te prima della partenza, se un piccolo Enea giocasse con me/mi
illudesse nella reggia, che nel volto mi richiamasse a te, allora non mi
vedrei dl tutto sorpresa e abbandonata.”
LA RISPOSTA
DI ENEA
Così aveva parlato. Egli
teneva i comandi immobili sui comandi di Giove e sforzandosi premeva il
dolore dentro il cuore. Infine dice queste poche cose: “Io non negherò, o
regina, che hai meriti, i maggiori che sei in grado di enumerare parlando, e
non mi rincrescerà ricordare Elissa, finché penserò a me stesso, finché il
soffio vitale reggerà queste membra. Di ciò parlerò poco. Non speravo di
nascondere la fuga come un ladro, non credere, e non di portare le fiaccole
nuziali né ho mai stretto un simile patto. Se i fati permettessero di
condurre un’esistenza secondo i miei desideri e di governare a mio piacimento
gli affanni, innanzitutto abiterei la città di Troia e sarei presso le mie
dolci reliquie, la reggia alta di Priamo sarebbe ancora in piedi e con le mie
mani avrei ricostruito per i vinti la rocca di Pergamo caduta due volte. Ma
ora Apollo grigneo e gli oracoli della Licia mi hanno ordinato di raggiungere;
questo è amore, questa è la
mia patria. Se la rocca di Cartagine e la vista di una città libica trattiene
te che sei fenicia, quale invidia c’è per te che i teucri vadano a stabilirsi
in terra d’Ausonia (Italia)? Anche a noi è lecito cercare regni stranieri.
Ogni volta che la notte copre la terra con le sue umide ombre e ogni volta
che sorgono gli astri infuocati il fantasma del padre Anchise mi terrorizza e
ammonisce in sogno; mi ammonisce anche il piccolo Ascanio e l’offesa che reco
al suo caro corpo,
che defraudo del regno
d’Esperia (Italia) e dei campi fatali. Adesso lo stesso messaggero degli dei
mandato dallo stesso Giove, lo giuro sul capo di entrambi, mi porta ordini
per l’aria veloce; io stesso vidi il dio in un chiarore lucente penetrare
nelle mura e io ne accolsi con questi orecchi la voce. Smetti di inasprire me
e te con i tuoi lamenti, cerco l’Italia non di mia volontà.”
DISPERAZIONE
DELLA REGINA DIDONE
Lei avversa guarda ostilmente
lui che dice queste cose ormai girando gli occhi di qua e di là e il suo
sguardo vaga con gli occhi muti e, infuocata, scoppia così a parlare: “Non ti
fu madre una dea, né Dardano capostipite, o perfido, ma ti ha generato
l’orrido Caucaso dalle irte rocce e le tigri ircane (di Lucania) ti hanno
porto le loro mammelle (nutrito). Infatti perché fingere riservarmi ad
ulteriori oltraggi? Sei forse intenerito per il nostro pianto? Forse che mi
ha guardato negli occhi? Forse che, vinto, ha versato una lacrima o ha avuto
pietà della sua amante? Cosa posso aspettarmi di peggio? Ormai né la grande
Giunone né il padre Saturno possono guardare qui con occhi equi. La fedeltà
non è più garantita: l’ho accolto buttato sulla riva e bisognoso di tutto e
da pazza gli ho dato parte del mio regno, gli ho salvato la flotta distrutta,
ho sottratto i suoi compagni dalla morte. Ah! Sono infiammata e trascinata
dalle furie! Ora Apollo augure, ora i responsi della Licia, ora il messaggero
degli dei mandato dallo stesso Giove porta per l’aria i comandi. Certamente
questa è l’azione degli dei, la sollecitudine muove chi era fermo. Non ti
trattengo e non ti propongo altre parole: vattene, segui coi venti l’Italia,
cerca regni attraverso le onde. Spero veramente, se le mie preghiere possono
qualcosa, che pagherai fino in fondo la pena attraverso gli scogli e
invocherai spesso il nome di Didone. Ti seguirò da lontano con fiamme
minacciose e quando la fredda morte scinderà le membra dall’anima ti sarò
vicina come uno spettro in qualunque luogo. Pagherai il fio, miserabile; questa
notizia mi raggiungerà anche laggiù, fra le ombre dei Mani (Inferi).”
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pene
RispondiEliminanon si dice disgraziato
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