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domenica 29 aprile 2012

ANALISI POESIA "Lo steddazzu" DI CESARE PAVESE


LO STEDDAZZU

L’uomo solo si leva che il mare è ancor buio
e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
sale su dalla riva, dov’è il letto del mare,
e addolcisce il, respiro. Quest’è l’ora in cui nulla
può accadere. Perfino la pipa fra i denti
pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquio.
L’uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossire il terreno. Anche il mare
tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.

Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara
che l’inutilità. Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall’alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
a cui l’uomo per far qualcosa, si scalda;
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov’è un letto di neve. La lentezza dell’ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.

Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà l’alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l’ultima stella si spegne nel cielo,
l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende.

PRIMA LETTURA
Pavese, con questa poesia, descrive la monotonia della vita e la sua solitudine all’arrivo dell’alba e allo spegnersi dell’ultima stella: lo steddazzu.

SECONDA / TERZA LETTURA
Questo componimento poetico è formato da tre grandi strofe, le prime due costituite da nove versi e l’ultima da sette per farla risaltare e far capire al lettore che nell’ultima strofa c’è quello che il poeta vuole comunicare; questa particolarità nel mettere in risalto la strofa più importante l’abbiamo riscontrata anche nella poesia di Montale “meriggiare pallido e assorto”, solo che la strofa più importante è evidenziata con un numero maggiore di versi. La scelta di mettere meno versi nella strofa più importante è molto interessante perché è come se il poeta volesse farci percepire che a lui manca qualcosa, e questo è il senso della vita: l’unico che rompe la monotonia apparente della vita che descrive nelle prime due strofe. Dico apparente perché, a parer mio, ogni singolo istante della vita non può essere monotono perché in ogni singolo istante la realtà ti si presenta davanti in un’altra forma e facendoti provare sensazioni sempre diverse.
Per descrivere questa sua monotonia Pavese usa lo stile prosastico poiché, per prima cosa, eliminando le rime il ritmo diventa più lento (e questo è dato anche dalla lunghezza dei versi endecasillabi e dal fatto che le frasi sono tutte coordinate fra loro e non subordinate) e per seconda cosa il racconto è meno scorrevole di una poesia.
Pavese, per mantenere il ritmo lento, usa poche caratteristiche poetiche, anzi, ne usa soltantodue: la prima è la sinestesia nella prima strofa “notturno è il sommesso sciacquio”, la seconda è un ossimoro sempre nella prima strofa “mare avvampante”; per descrivere la solitudine, la sua disperazione e la monotonia, invece, usa molte figure.
Per descrivere la solitudine ripete molte volte “l’uomo solo”, che è generico ma nello stesso tempo l’autore l’ha usato per descriversi; per descrivere la monotonia usa l’immagine dell’uomo che accende la pipa (“l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende”) descrivendo un senso di abitudine e poi quella della pipa e della stella che pendono e questo ci trasmette un senso di instabilità (cioè l’instabilità della vita del poeta guardando anche la sua biografia), di monotonia, di non attesa. Questa è una caratteristica interessante, perché si vede il contrasto tra Pavese e Leopardi, ovvero, tra “lo steddazzu” e “il sabato del villaggio”, perché Leopardi nella sua poesia descrive un’attesa frenetica, che per lui è risultata una delusione mentre Pavese descrive il risultato di non provare l’attesa (non puoi sentirti sorpreso di una cosa di cui non hai mai avuto interesse). L’esempio di questi due poeti ci fanno capire che non dobbiamo né attendere senza iniziare a vivere adesso né non attendere nulla perché ciò ti priva di interesse e fa diventare monotono tutta la vita.
Per esprimere la sua disperazione l’autore usa due metodi. Uno è quello di spezzare la frase mettendo in evidenza le parole più dure come “nulla/può accadere” o “amara/che l’inutilità”; con questi due enjambement si nota subito la non attesa, il fatto che Pavese non si aspetta nulla dalla vita.
Il secondo è quello di inserire delle figure che suggeriscano la disperazione; una è “ l’uomo solo vorrebbe soltanto dormire”, dove il sonno viene inteso come il sonno della morte così da non affrontare mai più le situazioni difficili della vita (infatti Pavese muore per suicidio, come descritto nel libro Lessico famigliare, perché credeva inutile continuare a vivere senza uno scopo e un’aspettativa), l’altra è descritta nel verso “quando l’ultima stella si spegne nel cielo,…” dove dice implicitamente che anche lui vorrebbe “spegnersi” come la stella per smettere questa commedia che è, per lui, la vita.
C’è un altro elemento interessante che descrive la rassegnazione di Pavese: il titolo. “lo steddazzu” è l’ultima stella che si spegne la mattina, e questo sembrerebbe mandare un messaggio riferito alla speranza che è l’ultima a spegnersi, invece, nel corso della poesia, viene descritto lo spegnersi dell’ultima stella e quindi della speranza di qualcosa di nuovo, di una svolta nel senso della vita del poeta.

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