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martedì 16 settembre 2014

IL CLASSICISMO - Tema

Che riflessione complessiva possiamo fare sul rapporto con la tradizione classica (classica nel senso greco-latina ma anche di classica italiana)? Sviluppa in una forma di saggio breve.

Ciascun autore della letteratura italiana, nell’atto dello scrivere ha dovuto chiedersi che rapporto mantenere con la tradizione classica (sia quella greco-latina, che quella italiana). Tre sono le diverse modalità con cui rapportarsi con la storia che si ha alle spalle: l’emulazione totale delle forme e dei contenuti, il rifiuto assoluto del passato a favore di forme nuove per contenuti nuovi, la creazione di qualcosa di nuovo a partire da una coscienza storica e dal riconoscimento di un’appartenenza a quella stessa tradizione.

1.      L’emulazione
La trasposizione cieca e anacronistica delle forme antiche portò gli autori che scelsero questa strada ad un rapporto di alienamento con la tradizione, esaltata a tal punto da sopprimere un messaggio creativo da parte del poeta, sterilizzando così la letteratura da lui prodotta, destinata a non avere alcun impatto con la realtà. È questa la sorte del classicismo che ha caratterizzato tutto il secolo del ‘400, in cui la preoccupazione per l’esaltazione dell’antico, il ritorno alla lingua latina a discapito del volgare, non lasciarono spazio a nulla di nuovo. C’è, inoltre, un grande rischio in questa scelta: quello di fraintendere o di esagerare alcuni aspetti, riportando la propria idea di antichità come veritiera ed autentica. Un esempio lampante di ciò è la ballata di Lorenzo de’Medici, che celebra il trionfo della sregolatezza, invita a godere dei piaceri della vita finché sia possibile:

Quant’è bella giovinezza
Che si fugge tuttavia:
chi vuol esser lieto, sia,
di doman non c’è certezza.

Ecco come il famoso carpe diem oraziano viene riproposto, ma sminuito, ridotto, svuotato del suo significato più profondo e autentico, che verte, in realtà, sulla parola che precede il “cogli l’attimo”, cioè sapias, “sii saggia”. Questo amorevole messaggio rivolto alla giovane Leuconoe viene manipolato e storpiato in un immorale invito a divertirsi finché non si invecchia.
Si ripropone una mitologia muta e ideale, si ricerca l’aurea di grandezza che avvolge i Greci e i Latini, si ripropongono i metri latini e greci a sfavore dell’esametro, si descrivono ambienti pastorali idealizzati e irreali. Tutto questo è il mondo dell’Accademia dell’Arcadia, un secondo esempio di come nella letteratura italiana il classicismo è stato seguito in modo totalizzante; infatti, mentre questo circolo di intellettuali si dilettava tra di loro di una poesia vuota, che aveva come tema il nulla, intorno a loro imperversava il secolo delle rivoluzioni, dell’innovazione, il Settecento illuminista. Come la letteratura può diventare strumento per estraniarsi dalla realtà, se non viene attuato un paragone critico e cosciente con il presente e con se stessi! Ecco che cosa producevano questi letterati, una poesia che ha per tema il nulla: cito l’esempio della poesia Sede alle Grazie, nido agli Amori di Paolo Rolli, che voglio riportare per intero, rendendo evidente così che l’intera poesia tratta del vuoto:

Sede alle Grazie, nido agli Amori,
conca di perle, bocca onde stillano
dolcezze e spirano soavi odori,

Amor composeti quel tumidetto
Vivace labbro sotto al bellissimo,
gentil, sensibile naso perfetto,

e disse a Venere: - Per sì bel labbro
prendo il modello dell’arco proprio;
sovra poi spargovi divin cinabro,

ove rosseggino d’almi diletti
fiamme che accendono in petto nobile
irresistibile desio d’affetti;

già dalla fulgida vaga tua stella,
felice nascita sortì l’altr’alma,
per cui riserbasi bocca s’ bella;

e per reciproca maggior fortuna,
dono rarissimo conosceranno
ambe ogni pregio che in lor s’aduna.

Queste ampie descrizioni, la scelta delle parole meno usate, la ripresa della mitologia e delle divinità pagane, un ordine delle parole costruito artificialmente: tutti gli elementi che caratterizzano questo tipo di poesia dalla forma perfetta e dal contenuto effettivo nullo.
Ma chi dedica la sua vita allo studio della classicità non ne è necessariamente alienato; l’esempio più lampante è Pietro Bembo, un grande intellettuale che ha il merito di aver proposto la soluzione migliore nel dibattito sulla lingua che si sviluppò nel Rinascimento. Davanti alla problematica su quale fosse la lingua e successivamente il modello da adottare per una comunicazione condivisa in tutta Italia ed espressiva di una nazionalità, propose una lingua letteraria e circoscritta a tre autori: Dante, Petrarca, Boccaccio. Anche lui aveva studiato molto la Grecia, il mondo romano, anche lui amava la letteratura classica, ma è evidente che questo studio non fu per lui fine a se stesso, non fu da lui assolutizzato e cristallizzato, ma usufruito per rispondere alle necessità e ai problemi del suo tempo. Ecco uno studio utile alla realtà.


2.      Il rifiuto
Troviamo poi una tendenza diametralmente opposta a quella appena descritta: quella di mettersi in netta opposizione rispetto al passato, che quindi viene riconosciuto, in forza di una forma nuova adatta a contenuti nuovi. Questa critica, pur essendo assolutamente lecita e anche interessante, può però degenerare in un rifiuto cieco delle proprie radici, della propria storia, finendo poi per allontanare anche ciò che c’è di bello, di buono e di utile in essa. Non troviamo esperienze così radicali in Italia, perché si è sempre guardato alle proprie origini con fierezza e con la tendenza ad esaltarne la tradizione; per questo riporto solamente un esempio a favore di questo argomento, e cioè l’esperienza di novità più forte che si può trovare perché essa stessa si concepiva come innovativa e si proponeva come “rivoluzionaria”: il periodico giornalistico il Caffè.
La novità che presenta è per diversi punti di vista, come leggiamo nell’articolo di apertura della rivista:

Cos’è questo "Caffè"? È un foglio di stampa che si pubblicherà ogni dieci giorniCosa conterrà questo foglio di stampa? Cose varie, cose disparatissime, cose inedite, cose fatte da diversi autori, cose tutte dirette alla pubblica utilità. Va bene: ma con quale stile saranno eglino scritti questi fogli? Con ogni stile, che non annoiE sin a quando fate voi conto di continuare quest’opera? Insin a tanto che avranno spaccio. Se il pubblico si determina a leggerli, noi continueremo per un anno, e per più ancora, e in fine d’ogni anno dei trentasei fogli se ne farà un tomo di mole discreta: se poi il pubblico non li legge, la nostra fatica sarebbe inutile, perciò ci fermeremo anche al quarto, anche al terzo foglio di stampa. Qual fine vi ha fatto nascere un tal progetto? Il fine d’una aggradevole occupazione per noi, il fine di far quel bene, che possiamo alla nostra patria, il fine di spargere delle utili cognizioni fra i nostri cittadini, divertendoli, come già altrove fecero e Steele, e Swift, e Addison, e Pope, ed altri. Ma perché chiamate questi fogli "Il Caffè"? Ve lo dirò; ma andiamo a capo.

L’immedesimazione nel lettore tanto da prevenirne le domande, la scelta di una rivista pubblicata periodicamente, la vastità degli argomenti; la decisione di trattare di problematiche attuali, l’invito alla critica, l’apertura della letteratura al contributo di tutti “diversi autori” affinché sia attuabile l’utilità ed il bene comune; la predilezione di uno stile che sia diretto, chiaro, facile, “che non annoi” affinché il lettore sia aiutato e non osteggiato dalla difficoltà della sintassi e non debba essere colto per comprendere i riferimenti testuali; l’assenza della preoccupazione della gloria personale, ma la scelta di concentrare le forze alla creazione di qualcosa che nello stesso tempo diverta e sia utile per tutti. Non stupisce che il modello adottato da loro non sia la tradizione italiana, ma quella inglese con “Steele, e Swift, e Addison, e Pope, ed altri”.


3.      La ricreazione
C’è infine un’ultima modalità di rapportarsi con il passato, la più interessante. Partiamo subito dal testo.

Così a l’egro fanciul progiamo aspersi
Di soavi licor gli orli del vaso:
succhi amari ingannati ei beve,
e da l’inganno suo vita riceve.

Per chi fosse in dubbio, questo passo è tratto dalla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso; ma non biasimo perché ci si poteva confondere con un altro autore da cui il sorrentino (?) ha preso ispirazione: il poeta latino Lucrezio. Nel proemio del suo poema, Tasso riporta la metafora del fanciullo che, malato, gli si dà da bere l’amara medicina in un bicchiere dal bordo zuccherato: così verrà nello stesso tempo guarito e dilettato. È questa l’alternativa alle modalità precedentemente esposte; studiare le proprie origini, porsi in un distacco critico per poter giudicare ciò che si legge, paragonare se stesso con il messaggio espresso, criticare ciò che è inutile o dannoso, sbagliato, conservare ciò che è buono per sé. in questo modo un uomo può essere educato anche da uomini vissuti secoli e secoli fa. Giudicare il brutto, custodire il bello di ciò che si vede, si sente, si sperimenta, si studia. Tasso vide nella metafora di Lucrezio una concezione di poesia che fece sua: una letteratura votata alla salvezza dell’uomo (la cura del bambino dalla morte della malattia) attraverso la bellezza, anche estetica, della forma, che pure attrae e affascina l’uomo (la dolcezza dello zucchero).
Questa capacità di “ricreazione” parte da un metodo di studio ben preciso, da una concezione di realtà come ciò che educa l’uomo, arricchendolo nel tempo. È nel paragonare, criticare, giudicare, esaltare, scartare che deriva la ricchezza grazie a cui un autore può comunicare un proprio messaggio ponendosi all’interno di una storia. Il metodo descritto spiega la scelta di Giuseppe Parini di conservare una forma classica ai suoi scritti, nonostante intorno a lui imperversi l’Illuminismo rivoluzionario, che invitava ad una forma più semplificata e diretta di scrittura. Una scelta anacronistica? Rispondiamo col proporre un brano tratto da Il giorno.

Sorge il mattino in compagnia dell’alba
Dinanzi al sol che di poi grande appare
Su l’estremo orizzonte a render lieti
Gli animali e le piante e i campi e l’onde.
Allora il buon villan sorge dal caro
Letto cui la fedel moglie e i minori
Suoi figlioletti intiepidir la notte:
poi sul collo recando i sacri arnesi
che prima ritrovâr Cerere, e Pale,
va col bue lento innanzi al campo, e scuote
lungo il picciol sentier da’ curvi rami
il rugiadoso umor che, quasi gemma,
i nascenti del sol raggi rifrange.

Ecco una meravigliosa descrizione dell’alba, del lento sorgere del mattino, piano e dolce per il contadino che si risveglia tra il calore della sua famiglia; e si prepara al lavoro, faticoso ma necessario all’uomo per essere più completo, per poter portare a casa il pane e dar da mangiare ai figlioli, per produrre qualcosa nel mondo. La limpida bellezza testuale proviene necessariamente da una tradizione, da una storia ben studiata da Parini; ripropone addirittura dei riferimenti mitologici: Cerere e Pale, che tra le divinità classiche erano rispettivamente la dea delle messi e la dea della pastorizia. Tutta questa lieve descrizione, questa ricerca del bello non è però slegata dal fine del testo stesso, non è chiusa in sé, ma utile ai fini del messaggio dell’autore; vediamo come, proseguendo nella lettura:

Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo,
qual istrice pungente, irti i capegli
al suon di mie parole? Ah non è questo,
signore, il tuo mattin. Tu col cadente
sol non sedesti a parca mensa, e al lume
dell’incerto crepuscolo non gisti
jeri a corcarti in male agiate piume,
come dannato è a far l’umile vulgo.
A voi celeste prole, a voi concilio
di Semidei terreni altro concesse
Giove benigno: e con altr’arti e leggi
per novo calle a me convien guidarvi.

Questo testo satirico, infatti, non tratta di campagnoli, di campi e di mansueti animali, ma è un messaggio indirizzato direttamente ai nobili italiani, un incoraggiamento a riprendere coscienza di sé per poter riprendere in mano il compito a loro assegnato, cioè la responsabilità politica del bene comune. Per fare questo sbatte letteralmente loro in faccia la vita sregolata che conducono nell’oblio dei loro doveri, nello sperpero delle finanze non per il popolo di cui hanno la responsabilità, ma per loro stessi in un inutile lusso. L’affiancamento della modesta vita di un qualsiasi contadino, più povera ma non vuota, è sia per un senso estetico, ma soprattutto per mettere ancora più in evidenza gli errori dei nobili, ricchi di denaro ma non ricchi di cuore. Possiamo ancora considerare la scelta di Parini anacronistica? Non direi.


Ora, davanti al testo di un autore, abbiamo gli strumenti per misurarne l’effettiva maturità, e non la quantità di conoscenza da lui assorbita nello studio, che può essere molto vasta, ma poco profonda. Noi stessi, se volessimo scrivere un racconto, un testo teatrale, un copione da cinema, un sonetto, dovremmo fare i conti con il nostro passato, e scegliere come porci di fronte ad esso: se puramente copiarlo, se rifiutarlo, se giudicarlo.

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