Che riflessione
complessiva possiamo fare sul rapporto con la tradizione classica (classica nel
senso greco-latina ma anche di classica italiana)? Sviluppa in una forma di
saggio breve.
Ciascun autore della
letteratura italiana, nell’atto dello scrivere ha dovuto chiedersi che rapporto
mantenere con la tradizione classica (sia quella greco-latina, che quella
italiana). Tre sono le diverse modalità con cui rapportarsi con la storia che
si ha alle spalle: l’emulazione totale delle forme e dei contenuti, il rifiuto assoluto
del passato a favore di forme nuove per contenuti nuovi, la creazione di
qualcosa di nuovo a partire da una coscienza storica e dal riconoscimento di
un’appartenenza a quella stessa tradizione.
1.
L’emulazione
La trasposizione cieca e
anacronistica delle forme antiche portò gli autori che scelsero questa strada
ad un rapporto di alienamento con la tradizione, esaltata a tal punto da
sopprimere un messaggio creativo da parte del poeta, sterilizzando così la
letteratura da lui prodotta, destinata a non avere alcun impatto con la realtà.
È questa la sorte del classicismo che ha caratterizzato tutto il secolo del
‘400, in cui la preoccupazione per l’esaltazione dell’antico, il ritorno alla
lingua latina a discapito del volgare, non lasciarono spazio a nulla di nuovo.
C’è, inoltre, un grande rischio in questa scelta: quello di fraintendere o di
esagerare alcuni aspetti, riportando la propria idea di antichità come
veritiera ed autentica. Un esempio lampante di ciò è la ballata di Lorenzo
de’Medici, che celebra il trionfo della sregolatezza, invita a godere dei
piaceri della vita finché sia possibile:
Quant’è bella giovinezza
Che si fugge tuttavia:
chi vuol esser lieto, sia,
di doman non c’è certezza.
Ecco come il famoso carpe
diem oraziano viene riproposto, ma sminuito, ridotto, svuotato del suo
significato più profondo e autentico, che verte, in realtà, sulla parola che
precede il “cogli l’attimo”, cioè sapias, “sii saggia”. Questo amorevole
messaggio rivolto alla giovane Leuconoe viene manipolato e storpiato in un
immorale invito a divertirsi finché non si invecchia.
Si ripropone una mitologia
muta e ideale, si ricerca l’aurea di grandezza che avvolge i Greci e i Latini,
si ripropongono i metri latini e greci a sfavore dell’esametro, si descrivono ambienti
pastorali idealizzati e irreali. Tutto questo è il mondo dell’Accademia
dell’Arcadia, un secondo esempio di come nella letteratura italiana il
classicismo è stato seguito in modo totalizzante; infatti, mentre questo
circolo di intellettuali si dilettava tra di loro di una poesia vuota, che
aveva come tema il nulla, intorno a loro imperversava il secolo delle
rivoluzioni, dell’innovazione, il Settecento illuminista. Come la letteratura
può diventare strumento per estraniarsi dalla realtà, se non viene attuato un
paragone critico e cosciente con il presente e con se stessi! Ecco che cosa
producevano questi letterati, una poesia che ha per tema il nulla: cito
l’esempio della poesia Sede alle Grazie, nido agli Amori di Paolo Rolli,
che voglio riportare per intero, rendendo evidente così che l’intera poesia
tratta del vuoto:
Sede alle Grazie, nido
agli Amori,
conca di perle, bocca onde
stillano
dolcezze e spirano soavi
odori,
Amor composeti quel
tumidetto
Vivace labbro sotto al
bellissimo,
gentil, sensibile naso
perfetto,
e disse a Venere: - Per sì
bel labbro
prendo il modello
dell’arco proprio;
sovra poi spargovi divin
cinabro,
ove rosseggino d’almi
diletti
fiamme che accendono in
petto nobile
irresistibile desio
d’affetti;
già dalla fulgida vaga tua
stella,
felice nascita sortì
l’altr’alma,
per cui riserbasi bocca s’
bella;
e per reciproca maggior
fortuna,
dono rarissimo
conosceranno
ambe ogni pregio che in
lor s’aduna.
Queste ampie descrizioni, la
scelta delle parole meno usate, la ripresa della mitologia e delle divinità
pagane, un ordine delle parole costruito artificialmente: tutti gli elementi
che caratterizzano questo tipo di poesia dalla forma perfetta e dal contenuto
effettivo nullo.
Ma chi dedica la sua vita
allo studio della classicità non ne è necessariamente alienato; l’esempio più
lampante è Pietro Bembo, un grande intellettuale che ha il merito di aver
proposto la soluzione migliore nel dibattito sulla lingua che si sviluppò nel
Rinascimento. Davanti alla problematica su quale fosse la lingua e
successivamente il modello da adottare per una comunicazione condivisa in tutta
Italia ed espressiva di una nazionalità, propose una lingua letteraria e
circoscritta a tre autori: Dante, Petrarca, Boccaccio. Anche lui aveva studiato
molto la Grecia, il mondo romano, anche lui amava la letteratura classica, ma è
evidente che questo studio non fu per lui fine a se stesso, non fu da lui
assolutizzato e cristallizzato, ma usufruito per rispondere alle necessità e ai
problemi del suo tempo. Ecco uno studio utile alla realtà.
2.
Il
rifiuto
Troviamo poi una tendenza
diametralmente opposta a quella appena descritta: quella di mettersi in netta
opposizione rispetto al passato, che quindi viene riconosciuto, in forza di una
forma nuova adatta a contenuti nuovi. Questa critica, pur essendo assolutamente
lecita e anche interessante, può però degenerare in un rifiuto cieco delle
proprie radici, della propria storia, finendo poi per allontanare anche ciò che
c’è di bello, di buono e di utile in essa. Non troviamo esperienze così
radicali in Italia, perché si è sempre guardato alle proprie origini con
fierezza e con la tendenza ad esaltarne la tradizione; per questo riporto
solamente un esempio a favore di questo argomento, e cioè l’esperienza di
novità più forte che si può trovare perché essa stessa si concepiva come
innovativa e si proponeva come “rivoluzionaria”: il periodico giornalistico il
Caffè.
La novità che presenta è per
diversi punti di vista, come leggiamo nell’articolo di apertura della rivista:
Cos’è questo
"Caffè"? È un foglio
di stampa che si pubblicherà ogni dieci giorni. Cosa conterrà
questo foglio di stampa? Cose varie, cose disparatissime, cose
inedite, cose fatte da diversi autori, cose tutte dirette alla pubblica
utilità. Va bene: ma con quale stile saranno eglino scritti questi
fogli? Con ogni stile, che non annoi. E sin a quando
fate voi conto di continuare quest’opera? Insin a tanto che avranno
spaccio. Se il pubblico si determina a leggerli, noi continueremo per un anno,
e per più ancora, e in fine d’ogni anno dei trentasei fogli se ne farà un tomo
di mole discreta: se poi il pubblico non li legge, la nostra fatica sarebbe
inutile, perciò ci fermeremo anche al quarto, anche al terzo foglio di
stampa. Qual fine vi ha fatto nascere un tal progetto? Il fine
d’una aggradevole occupazione per noi, il fine di far quel bene, che possiamo
alla nostra patria, il fine di spargere delle utili cognizioni fra i nostri
cittadini, divertendoli, come già altrove fecero e Steele, e Swift, e
Addison, e Pope, ed altri. Ma perché chiamate questi fogli "Il
Caffè"? Ve lo dirò; ma andiamo a capo.
L’immedesimazione nel lettore
tanto da prevenirne le domande, la scelta di una rivista pubblicata
periodicamente, la vastità degli argomenti; la decisione di trattare di problematiche
attuali, l’invito alla critica, l’apertura della letteratura al contributo di
tutti “diversi autori” affinché sia attuabile l’utilità ed il bene
comune; la predilezione di uno stile che sia diretto, chiaro, facile, “che
non annoi” affinché il lettore sia aiutato e non osteggiato dalla
difficoltà della sintassi e non debba essere colto per comprendere i
riferimenti testuali; l’assenza della preoccupazione della gloria personale, ma
la scelta di concentrare le forze alla creazione di qualcosa che nello stesso
tempo diverta e sia utile per tutti. Non stupisce che il modello adottato da
loro non sia la tradizione italiana, ma quella inglese con “Steele, e Swift,
e Addison, e Pope, ed altri”.
3.
La
ricreazione
C’è infine un’ultima modalità
di rapportarsi con il passato, la più interessante. Partiamo subito dal testo.
Così a l’egro fanciul
progiamo aspersi
Di soavi licor gli orli
del vaso:
succhi amari ingannati ei
beve,
e da l’inganno suo vita
riceve.
Per chi fosse in dubbio,
questo passo è tratto dalla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso; ma
non biasimo perché ci si poteva confondere con un altro autore da cui il
sorrentino (?) ha preso ispirazione: il poeta latino Lucrezio. Nel proemio del
suo poema, Tasso riporta la metafora del fanciullo che, malato, gli si dà da
bere l’amara medicina in un bicchiere dal bordo zuccherato: così verrà nello
stesso tempo guarito e dilettato. È questa l’alternativa alle modalità
precedentemente esposte; studiare le proprie origini, porsi in un distacco
critico per poter giudicare ciò che si legge, paragonare se stesso con il
messaggio espresso, criticare ciò che è inutile o dannoso, sbagliato,
conservare ciò che è buono per sé. in questo modo un uomo può essere educato
anche da uomini vissuti secoli e secoli fa. Giudicare il brutto, custodire il
bello di ciò che si vede, si sente, si sperimenta, si studia. Tasso vide nella
metafora di Lucrezio una concezione di poesia che fece sua: una letteratura
votata alla salvezza dell’uomo (la cura del bambino dalla morte della malattia)
attraverso la bellezza, anche estetica, della forma, che pure attrae e
affascina l’uomo (la dolcezza dello zucchero).
Questa capacità di
“ricreazione” parte da un metodo di studio ben preciso, da una concezione di
realtà come ciò che educa l’uomo, arricchendolo nel tempo. È nel paragonare,
criticare, giudicare, esaltare, scartare che deriva la ricchezza grazie a cui
un autore può comunicare un proprio messaggio ponendosi all’interno di una
storia. Il metodo descritto spiega la scelta di Giuseppe Parini di conservare
una forma classica ai suoi scritti, nonostante intorno a lui imperversi
l’Illuminismo rivoluzionario, che invitava ad una forma più semplificata e
diretta di scrittura. Una scelta anacronistica? Rispondiamo col proporre un
brano tratto da Il giorno.
Sorge il mattino in
compagnia dell’alba
Dinanzi al sol che di poi
grande appare
Su l’estremo orizzonte a
render lieti
Gli animali e le piante e
i campi e l’onde.
Allora il buon villan
sorge dal caro
Letto cui la fedel moglie
e i minori
Suoi figlioletti
intiepidir la notte:
poi sul collo recando i
sacri arnesi
che prima ritrovâr Cerere, e Pale,
va col bue lento innanzi al campo, e scuote
lungo il picciol sentier da’ curvi rami
il rugiadoso umor che, quasi gemma,
i nascenti del sol raggi rifrange.
che prima ritrovâr Cerere, e Pale,
va col bue lento innanzi al campo, e scuote
lungo il picciol sentier da’ curvi rami
il rugiadoso umor che, quasi gemma,
i nascenti del sol raggi rifrange.
Ecco una meravigliosa
descrizione dell’alba, del lento sorgere del mattino, piano e dolce per il
contadino che si risveglia tra il calore della sua famiglia; e si prepara al
lavoro, faticoso ma necessario all’uomo per essere più completo, per poter
portare a casa il pane e dar da mangiare ai figlioli, per produrre qualcosa nel
mondo. La limpida bellezza testuale proviene necessariamente da una tradizione,
da una storia ben studiata da Parini; ripropone addirittura dei riferimenti
mitologici: Cerere e Pale, che tra le divinità classiche erano rispettivamente
la dea delle messi e la dea della pastorizia. Tutta questa lieve descrizione,
questa ricerca del bello non è però slegata dal fine del testo stesso, non è
chiusa in sé, ma utile ai fini del messaggio dell’autore; vediamo come,
proseguendo nella lettura:
Ma che? tu inorridisci, e
mostri in capo,
qual istrice pungente, irti i capegli
al suon di mie parole? Ah non è questo,
signore, il tuo mattin. Tu col cadente
sol non sedesti a parca mensa, e al lume
dell’incerto crepuscolo non gisti
jeri a corcarti in male agiate piume,
come dannato è a far l’umile vulgo.
qual istrice pungente, irti i capegli
al suon di mie parole? Ah non è questo,
signore, il tuo mattin. Tu col cadente
sol non sedesti a parca mensa, e al lume
dell’incerto crepuscolo non gisti
jeri a corcarti in male agiate piume,
come dannato è a far l’umile vulgo.
A voi celeste prole, a voi
concilio
di Semidei terreni altro concesse
Giove benigno: e con altr’arti e leggi
per novo calle a me convien guidarvi.
di Semidei terreni altro concesse
Giove benigno: e con altr’arti e leggi
per novo calle a me convien guidarvi.
Questo testo satirico,
infatti, non tratta di campagnoli, di campi e di mansueti animali, ma è un
messaggio indirizzato direttamente ai nobili italiani, un incoraggiamento a
riprendere coscienza di sé per poter riprendere in mano il compito a loro
assegnato, cioè la responsabilità politica del bene comune. Per fare questo
sbatte letteralmente loro in faccia la vita sregolata che conducono nell’oblio
dei loro doveri, nello sperpero delle finanze non per il popolo di cui hanno la
responsabilità, ma per loro stessi in un inutile lusso. L’affiancamento della
modesta vita di un qualsiasi contadino, più povera ma non vuota, è sia per un
senso estetico, ma soprattutto per mettere ancora più in evidenza gli errori
dei nobili, ricchi di denaro ma non ricchi di cuore. Possiamo ancora
considerare la scelta di Parini anacronistica? Non direi.
Ora, davanti al testo di un
autore, abbiamo gli strumenti per misurarne l’effettiva maturità, e non la
quantità di conoscenza da lui assorbita nello studio, che può essere molto
vasta, ma poco profonda. Noi stessi, se volessimo scrivere un racconto, un
testo teatrale, un copione da cinema, un sonetto, dovremmo fare i conti con il
nostro passato, e scegliere come porci di fronte ad esso: se puramente
copiarlo, se rifiutarlo, se giudicarlo.
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