UGO FOSCOLO
Il suo vero nome è Niccolò,
figlio di un medico veneziano e di Diamantina Spati, una greca che generò a
Zante il poeta come primogenito, poi altri due fratelli, che moriranno suicidi
(per uno dei quali dedica la poesia Alla morte del fratello Giovanni), e
una sorellina. La morte del padre mentre lui era ancora piccolo, e quindi
incapace ancora di lavorare, getta la famiglia in una grave difficoltà
economica. Lui, per il suo caratterino impossibile, viene mandato dagli zii. A
scuola mostra subito un grande talento per la letteratura e una predisposizione
per le lingue classiche, sviluppa immediatamente il senso per la bellezza, che
lo accompagnerà per tutta la sua vita da poeta. Si trasferisce quindi dalla
Grecia a Venezia, dove, seppur poverissimo, frequenta i salotti di impronta
illuministico-francese dove, talentuoso ed orgoglioso, conduce una vita che è
al di là delle sue possibilità economiche. D’altra parte, rifiuta assolutamente
di vendersi ad un potente per essere mantenuto a costo di qualche composizione,
accettando quindi una vita di sacrifici e di miseria. Questa compagnia lo forma
come un vero illuminista, tanto rinominarsi Ugo, in onore di Ugo Basserville,
un francese trasferitosi a Roma per diffondervi le nuove idee della
rivoluzione, ma che fu ucciso per linciaggio dopo l’ennesimo invito alla
violenza contro il papa durante una festa religiosa. Nella compagnia dei
salotti passa da una ragazza all’altra, e la sua prima donna è Isabella, lei di
trentasei anni e lui di quindici appena. Vede nella figura di Napoleone il
liberatore dell’Italia, e ripone in questa figura politica una grande speranza,
tanto di mobilitarsi come soldato e combattere per lui, attesa che verrà poi
delusa amaramente quando il condottiero venderà la Repubblica di Venezia per
concordare la pace con l’Austria; arriva addirittura a scegliere l’esilio
volontario, e a vagare per il mondo fino alla sua morte. Tutta la sua vita si
gioca su un dualismo: delusione ed illusione, desiderio del cuore umano e
realtà effettiva. Una realtà che lui riduce a ciò che i sensi percepiscono, che
è destinata ad un’inesorabile corruzione che la porta alla morte secondo la
teoria dei sensisti che assunse con la sua formazione all’Illuminismo. Dio,
l’anima, tutto ciò di cui non si ha esperienza sensoriale, non esiste. Ma
togliendo tutta questa parte della realtà, cosa rimane? Foscolo vede davanti a
sé una realtà incenerita, sa che i colori brillanti un giorno diventeranno
grigi, vede una realtà impregnata dal dolore e dall’insoddisfazione, e non ne
conosce il senso. Cosa può predominare allora se non la visione della morte? Davanti
a questo mondo votato alla fine cosa può fare l’uomo se il suo cuore desidera
qualcosa che superi la morte stessa? Come può l’uomo, che desidera l’infinito,
sopportare una vita votata a ciò che è finito, circondata di polvere? Grazie
all’illusione: per rendere la realtà tollerabile ci si deve illudere, e credere
nella bellezza, nella verità, nella dignità, accrescere se stesso, affermare la
propria grandezza, distrarsi, pur sapendo la verità. Che amarezza infinita! È
come le sorellastre di Cenerentola, che, per riuscire ad infilarsi al piede una
realtà troppo piccola per la loro taglia, si sono tagliate l’alluce o il
tallone, fingendo poi di stare benissimo, di camminare con la grazia di una
principessa.
Due sono le possibilità per
l’uomo: o il suicidio, o l’oblio nell’illusione.
È per questa “religione
dell’illusione”, l’unica cosa a cui si può aggrappare l’uomo per sfuggire la
disperazione di una vita troppo stretta, che si dedica con fervore alla poesia,
alla bellezza: le maggiori delle illusioni. Questo spiega il gran numero di
suoi scritti tutti concentrati in un brevissimo periodo di tempo; infatti, dai
trentacinque anni in poi, scriverà solo testi critici e nulla di propriamente
suo. Leggiamo questo brano tratto dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis,
il primo romanzo della nostra letteratura, in cui si scorge la ferita ancora
sanguinante provocata dalla delusione politica per Napoleone; il protagonista
sa che ora è sulla lista nera perché ha combattuto contro gli austriaci, e
scrive:
Il mio nome è nella lista
di proscrizione, lo so: ma vuoi tu c’io per salvarmi da chi m’opprime mi
commetta a chi mi ha tradito?
In questa suo nobile
desiderio di preservare almeno la sua dignità umana, scorgiamo i tratti di
Alfieri:
Poiché ho disperato della
mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio
cadavere almeno non cadrà fra braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente
compianto da’ pochi uomini buoni, compagni delle nostre miserie; le mie ossa
poseranno sulla terra de’ miei padri.
Oltre al fatto che in queste
righe troviamo per la prima volta nella letteratura italiana il tema della
sepoltura in patria, ci accorgiamo evidentemente della somiglianza con
l’affermazione esasperata dell’io di Alfieri. Il suicidio è legittimato, per
affermare la libertà individuale, e perché è indice di un’anima grande, che si
ribella all’oppressione, ma qui il tono poetico assume una nuova amarezza, che
Alfieri non conosceva, una triste rassegnazione che non avevamo trovato prima.
L’unico barlume di speranza, si vede nell’introduzione del libro: Foscolo
struttura il romanzo come una raccolta di lettere, di Jacopo Ortis, appunto,
che il suo amico Lorenzo Alderani, dopo il suicidio di lui, ha voluto riunire e
presentare ad un pubblico di lettori, affinché desse la sua “compassione al
giovane infelice dal quale forse potrai trarre esempio e conforto”. Non va
tutto perduto: la letteratura conserva il ruolo di educatrice e di conforto per
i poveri, miseri uomini, che si dilettano con questo, e si consolano perché non
possono cambiare le cose, non possono modificare la realtà che li circonda.
Ortis è ovviamente un
alterego di Foscolo, che, come Alfieri, parla di sé in tutti i modi e le forme
possibili; ogni suo personaggio è specchio di se stesso, anche nel riprendere
la figura di Cristo, in cui si immedesima in quanto Gesù fu il «giusto
sofferente» per antonomasia. Ma non conobbe invece Dio, né lo Spirito Santo; si
fermò alla constatazione di un Dio morto anche se puro, ucciso dalla cecità
dell’uomo, dalla sua malvagità. Non conosce invece la sua natura trascendentale
nelle altre figure della Trinità. Questa riduzione sensista della realtà
schiaccia l’uomo, che è fatto anche per altro.
L’ossessione per la tematica
della morte spiega anche la composizione de I sepolcri: un’opera con cui
l’autore si oppone fortemente all’emendamento di Pamplot del 1806 per cui non
avrebbero potuto seppellire i morti in città. Questo testo si gioca nel fondere
la ripresa della classicità con elementi nuovi, come la poesia cimiteriale
inglese (canti di Ostia). Ecco cosa aveva poetato l’autore latino Orazio secoli
e secoli prima:
Exegi monumentum aere
perennius
regalique situ pyramidum
altius,
quod non imber edax, non
Aquilo inpotens
possit diruere aut innumerabilis
annorum series et fuga temporum.
Non omnis moriar multaque pars mei
vitabit Libitinam; usque
ego postera
crescam laude recens,
dum Capitolium
scandet cum tacita
virgine pontifex.
Dicar, qua violens obstrepit Aufidus
et qua pauper aquae Daunus agrestium
regnavit populorum, ex humili potens
princeps Aeolium carmen ad Italos
deduxisse modos. Sume superbiam
quaesitam meritis et mihi Delphica
lauro cinge volens,
Melpomene, comam.
|
Ho innalzato un oggetto che
serve a ricordare, opera memorabile più duratura del bronzo e più alta delle
piramidi sede di re che non potrebbero distruggere la pioggia divoratrice né
l’Aquilone sfrenato o l’innumerevole serie di anni e la fuga del tempo.
Non morirò tutto, e molta
parte di me eviterà Libitina. Io crescerò rinnovandomi continuamente
nell’elogio del posteri finché il pontefice salirà al Campidoglio con la
vergine silenziosa. Si dirà, dove strepita violento l’Aufido, e dove Dauno,
povero d’acqua, regnò sui popoli agresti, da umile divenuto potente, che io
per primo ho trasferito la poesia eolica alla metrica italica. Accogli la
superba richiesta dai tuoi meriti e cingimi propizia i capelli con l’alloro
Delfico, o Mepomene.
|
Tutta la lotta che genera
questo scritto di Foscolo parte proprio dalla convinzione che l’uomo, sebbene
morto “Non omnis moriar”, non morirà tutto quanto. Ma la tomba è proprio
quel monumento che, sebbene conservi cenere e ossa, fa vivere l’uomo nella
memoria dei vivi. Foscolo è cosciente che la tomba sia un contenitore di terra,
ma sa altrettanto bene che il cuore non può arrendersi a questo, e deve
riconoscere che l’affetto per una persona dura anche dopo la morte. Per questo
vale costruire tombe e seppellire cadaveri che ormai non possono più dire nulla
alla vita.
Come risulta allora
contrastante il sonetto che compone per la morte di suo fratello, il suicida,
Giovanni, in cui invoca la morte come quiete, pace sperata e mai raggiunta in
vita!
È interessante notare il suo
modo innovativo di amalgamare passato e presente in qualcosa di completamente
nuovo, come è evidente anche ne Le Grazie, un inno dedicato alla
celebrazione di queste divinità, ma che nasconde nel racconto mitologico una
riflessione più profonda: le tre Grazie tornano infatti tra gli uomini che,
attratti dalla bellezza, avevano cercato di impossessarsene, protette da un
velo. Esso è trasparente, e lascia intravvedere all’uomo la loro nuda bellezza,
ma nello stesso tempo protegge e copre, illude gli uomini di poterle ammirare,
ma ciò che vedono è solamente il loro velo. Ciò che si vede è quindi l’ombra di
qualcosa che non si scorge, l’indizio di un mistero di cui però non abbiamo
esperienza, e quindi di cui non si ha la certezza che sia reale; permane il
dubbio che dietro al velo non ci sia nulla.
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