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martedì 16 settembre 2014

IL '700 ITALIANO E L'ILLUMINISMO - Tema

IL ‘700 ITALIANO E L’ILLUMINISMO

A legare questo nuovo secolo della letteratura a quello precedente è l’esperienza dell’Accademia. Nello stesso tempo, pur mantenendo la stessa forma, quella appunto di un circolo di intellettuali che condividono un interesse comune, i contenuti si propongono come innovativi rispetto alla cultura della meraviglia che ha caratterizzato il Barocco. La nuova Accademia dell’Arcadia, infatti, compie un drastico salto: dalla ricerca dell’eccezione passa alla ricerca quasi ossessiva (togliendo pure il “quasi”) della regola. Già il nome ne delinea il profilo: nella poesia greca, soprattutto, e latina questa regione peloponnesiaca rappresentava l’emblema della vita pastorale, che qui viene però idealizzata. Un esasperato classicismo, l’abbandono dell’esametro a favore dei metri latini e greci, i paesaggi inverosimili, la descrizione di un’aurea felice, spensierata e…vuota, superficiale. Il risultato è questo:

Sede alle Grazie, nido agli Amori,
conca di perle, bocca onde stillano
dolcezze e spirano soavi odori,

Amor composeti quel tumidetto
Vivace labbro sotto al bellissimo,
gentil, sensibile naso perfetto,

e disse a Venere: - Per sì bel labbro
prendo il modello dell’arco proprio;
sovra poi spargovi divin cinabro,

ove rosseggino d’almi diletti
fiamme che accendono in petto nobile
irresistibile desio d’affetti;

già dalla fulgida vaga tua stella,
felice nascita sortì l’altr’alma,
per cui riserbasi bocca s’ bella;

e per reciproca maggior fortuna,
dono rarissimo conosceranno
ambe ogni pregio che in lor s’aduna.

Il risultato è, cioè, dilettarsi di una poesia che ha come tema il nulla. Più mi impegno, meno riesco a trovare in questa poesia, Sede alle Grazie, nido agli Amori, che ho voluto citare per intero per rendere evidente ciò che dico.
Questo secolo è, però, pieno di contrasti, perché di fianco a questa brutta copia di un’antichità vuota, si sviluppa qualcosa di diametralmente opposto: sono gli anni in cui fiorisce in Europa l’Illuminismo.
Questo è il grande secolo delle rivoluzioni, dell’inizio della modernità, ma tutto questo non tocca quasi l’Italia; il fulcro di questo movimento che trascina il mondo verso qualcosa di radicalmente diverso è in Francia, che conoscerà la nascita di filosofi quali Rosseau, lo stesso Robespierre che ha preso in mano la rivoluzione Francese portandola ad un principio di dittatura e di totalitarismo, Voltaire, e potrei citarne molti altri. Nella penisola troviamo un Illuminismo avente gli stessi principi, ma attuati in modalità differenti, e molto meno diffuso che nella nazione francese. Questo movimento tocca Napoli, esperienza che però si può dire esclusiva di un solo autore, Gianbattista Vico, e soprattutto Milano, che esce da una dimensione regionale per una internazionale. L’inizio che ha scatenato questo movimento è stata l’esigenza del primato della ragione umana rispetto a tutti gli altri elementi della realtà, che è l’unico elemento su cui si può fondare una certezza per l’uomo in questo mondo pieno di inganni. Tutto ciò che non è ragionevole e che soprattutto impedisce alla ragione dell’uomo fioritura e sviluppo, deve essere eliminato; il principale bersaglio è la fede religiosa, che viene considerata come peggior nemico dell’uomo, perché irragionevole. La religione diventa quindi l’opposto del suo proponimento: un ostacolo all’uomo, perché identificata con una forma di potere dittatoriale, che sminuisce la capacità di ragionare dell’uomo, quindi lo abbassa ad uno stato di sottomissione. Ecco che l’uomo concepisce la propria dipendenza ad un dio come il De rerum natura di Lucrezio: tutta l’umanità schiacciata sotto il peso di una gigantesca credenza illusoria ed irragionevole; a riprendere questa idea è Emmanuel Kant, che riassume ciò nel suo scritto Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?

L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza – è dunque il motto dell’Illuminismo.

In Italia questo pensiero penetra con toni smorzati a causa delle diverse circostanze vigenti nella penisola: la mancanza di uno Stato nazionale, la presenza radicata della Chiesa con lo Stato pontificio e di una tradizione storica ben consapevole. Il movimento, per quanto riguarda alla letteratura, viene però accolto e incanalato in una tendenza alla praticità e all’apertura verso un pubblico più ampio che la cerchia degli intellettuali. Tutto il mondo illuminista infatti si interroga sul compito dell’intellettuale, dell’illuminato dalla verità della ragione: infatti, non essendo lui un minorato, per riprendere il passo di Kant, ha il dovere di illuminare tutti gli altri uomini. L’Illuminismo si pone quindi in una dimensione sociale, non resta un fatto relegato ad un circolo come fu l’Accademia dell’Arcadia.
Ciò che penetra dell’Illuminismo in Italia è proprio questo aspetto sociale: il desiderio di aprire la cultura a tutto il mondo, ovviamente conservando una tradizione. Possiamo infatti notare negli scritti di Gianbattista Vico richiami alla religione cristiana, riferimenti alla Bibbia; nel suo Scienza nuova, mentre descrive la nascita del senso religioso nei primi uomini, riflette sul ruolo dei “poeti”:

[…] dalla loro idea criavan cose, ma con infinita differenza però dal criare che fa Iddio: perocché nel suo purissimo intendimento, conosce e, conoscendole, cria le cose; essi, per la loro robusta ignoranza, il facevano in forza d’una corpolentissima fantasia […], onde furono detti «poeti», che lo stesso in greco suona «criatori». Che sono li tre lavori che deve fare la poesia grande, cioè di ritruovare favole sublimi confacenti all’intendimento popolaresco, e che perturbi all’eccesso, per conseguir il fine, che ella si ha proposto, d’insegnar il volgo a virtuosamente operare, com’essi l’insegnarono a se medesimi.

L’illuminato è tale perché maestro di se stesso, della propria ragione sviluppata, e maestro per gli altri attraverso la poesia. Si può dire un proponimento simile a quello dei grandi tragediografi greci, o a quello di Tasso, con l’abissale differenza che per Vico l’uomo potrebbe “illuminarsi” da sé.
Quindi, se il volgo ignorante non è più considerato un ammasso di “pidocchi”, come avrebbe detto Machiavelli, se viene rivalorizzata la potenzialità della ragione, che è comune a tutti gli uomini, anche i contadini, si può capire la preoccupazione di Cesare Beccaria volta a preservare una società che sia positiva per ciascun individuo. Il letterato lombardo, infatti, riflette su un particolare problema della società a lui contemporanea: quella della pena di morte per i delinquenti e criminali, che citerò come esempio di cambio di mentalità, di slancio verso una società sempre migliore, sempre più illuminata. Beccaria espone, infatti, nel suo Dei delitti e delle pene, il suo pensiero per cui una società realmente progredita deve essere capace di rieducare l’individuo; la società, che deve essere illuminata, ha quindi la stessa funzione del poeta-maestro descritta da Vico. È quindi inutile la pena di morte per i malfattori, perché uccidendoli si toglie loro la possibilità di cambiare, la possibilità di diventare uomini illuminati, di diventare a loro volta maestri. La società deve essere quindi in grado di correggere gli sbagli dei suoi figli senza crudeltà, ma con pazienza; solo così i può dare l’occasione di rifiorire a ciascuno.
Il desiderio di praticità di Beccaria e di aprire gli orizzonti della cultura a tutti come Vico, è sviluppato in modalità totalmente innovative e più accorato dai fratelli Pietro e Alessandro Verri: i fondatori della prima rivista giornalistica italiana, il Caffè. Stufi di una letteratura votata alla sola gloria personale, contrari a un’inefficace classicismo che si rivela incomprensibile per la maggior parte delle persone, convinti della necessità di un’innovazione totale nella letteratura italiana, propongono qualcosa di mai visto, un esperimento vivace e nuovo per la storia. Vi ripropongo l’articolo di apertura del giornale, con il quale questo attivo gruppo di intellettuali milanesi presenta se stesso:

Cos’è questo "Caffè"? È un foglio di stampa che si pubblicherà ogni dieci giorniCosa conterrà questo foglio di stampa? Cose varie, cose disparatissime, cose inedite, cose fatte da diversi autori, cose tutte dirette alla pubblica utilità. Va bene: ma con quale stile saranno eglino scritti questi fogli? Con ogni stile, che non annoiE sin a quando fate voi conto di continuare quest’opera? Insin a tanto che avranno spaccio. Se il pubblico si determina a leggerli, noi continueremo per un anno, e per più ancora, e in fine d’ogni anno dei trentasei fogli se ne farà un tomo di mole discreta: se poi il pubblico non li legge, la nostra fatica sarebbe inutile, perciò ci fermeremo anche al quarto, anche al terzo foglio di stampa. Qual fine vi ha fatto nascere un tal progetto? Il fine d’una aggradevole occupazione per noi, il fine di far quel bene, che possiamo alla nostra patria, il fine di spargere delle utili cognizioni fra i nostri cittadini, divertendoli, come già altrove fecero e Steele, e Swift, e Addison, e Pope, ed altri. Ma perché chiamate questi fogli "Il Caffè"? Ve lo dirò; ma andiamo a capo.
Un Greco originario di Citera, isoletta riposta fra la Morea e Candia, mal soffrendo l’avvilimento e la schiavitù, in cui i Greci tutti vengon tenuti dacché gli Ottomani hanno conquistata quella contrada, e conservando un animo antico malgrado l’educazione e gli esempi, son già tre anni che si risolvette d’abbandonare il suo paese: egli girò per diverse città commercianti, da noi dette le scale del Levante; egli vide le coste del Mar Rosso, e molto si trattenne in Mocha, dove cambiò parte delle sue merci in caffè del più squisito che dare si possa al mondo; indi prese il partito di stabilirsi in Italia, e da Livorno sen venne in Milano, dove son già tre mesi che ha aperta una bottega addobbata con ricchezza ed eleganza somma. In essa bottega primieramente si beve un caffè che merita il nome veramente di caffè; caffè vero verissimo di Levante, e profumato col legno d’aloe, che chiunque lo prova, quand’anche fosse l’uomo il più grave, l’uomo il più plombeo della terra bisogna che per necessità si risvegli, e almeno per una mezz'ora diventi uomo ragionevole. In essa bottega vi sono comodi sedili, vi si respira un'aria sempre tepida e profumata che consola: la notte è illuminata, cosicché brilla in ogni parte l’iride negli specchi e ne’ cristalli sospesi intorno le pareti e in mezzo alla bottega; in essa bottega chi vuol leggere trova sempre i fogli di novelle politiche, e quei di Colonia, e quei di Sciaffusa, e quei di Lugano, e vari altri; in essa bottega chi vuol leggere trova per suo uso e il Giornale Enciclopedico, e l’Estratto della letteratura Europea, e simili buone raccolte di novelle interessanti, le quali fanno che gli uomini che in prima erano romani, fiorentini, genovesi, o lombardi, ora sieno tutti presso a poco europei; in essa bottega v’è di più un buon atlante, che decide le questioni che nascono nelle nuove politiche; in essa bottega per fine si radunano alcuni uomini, altri ragionevoli, altri irragionevoli, si discorre, si parla, si scherza, si sta sul serio; ed io, che per naturale inclinazione parlo poco, mi sono compiaciuto di registrare tutte le scene interessanti che vi vedo accadere, e tutt’i discorsi che vi ascolto degni da registrarsi; e siccome mi trovo d’averne già messi in ordine vari, così li do alle stampe col titolo Il Caffè, poiché appunto son nati in una bottega di caffè.


Il linguaggio cambia completamente: niente più grecismi, ma domina il parlato, domande dirette al lettore, narratore in prima persona, ironia, leggerezza e assoluta chiarezza. Una chiarezza che invita a farsi incontrare dalla gente. È uno stile nuovo volto alla comprensione immediata, non dedito alla bellezza estetica, formale del classicismo. La bellezza sta invece nella semplicità, nella limpidezza, nel rapporto diretto tra autore e lettore che non è più filtrato da allegorie o dall’ostacolo di una lingua forbita o di riferimenti colti. Si abbandona completamente il complicato periodo architettonico per una schietta presentazione dello scritto che segue l’ordine del pensiero, tecnica presa in prestito dai francesi. Ripudiando una letteratura frutto di un artificio, e mettendosi quindi in contrasto con l’Accademia dell’Arcadia, propongono il valore dell’efficacia, di una letteratura che apra alla realtà, ai suoi problemi, alle sue necessità, e che richiede il contributo di tutti. Purtroppo questo vivace esperimento dura ben poco: dopo un anno e mezzo si smette la pubblicazione di nuove copie.
Carlo Goldini è un altro portatore di innovazione in Italia, nell’ambito però del mondo teatrale. La novità che porta è essenzialmente quella di considerare il teatro specchio della vita, palcoscenico del mondo, con cui l’azione teatrale si ritrova ad essere in rapporto biunivoco. Ed ecco che gli spettatori italiani si vedono catapultare su un palco pubblico la loro vita quotidiana, e non il grande dramma di eroi lontani. Ricchi, poveri, bambini, vecchi bisbetici, vecchi saggi, donne spendaccione, uomini innamorati, uomini d’affari, ragazze sognatrici, domestiche furbe, domestici più pragmatici dei loro padroni, amori nascosti, amiche ingenue, adulti bambini e molto altro. In questo senso l’azione teatrale ha la stessa funzione della letteratura: quella educativa, perché mostra a tutti (e qui si nota l’apertura del messaggio al mondo intero) la realtà in cui loro stessi sono immersi, invitando quindi a giudicarla e a correggersi.
Come ho detto precedentemente, questa influenza dell’Illuminismo è un fatto relegato, si può dire, alla sola realtà milanese, mentre nel settecento italiano prevale in gran istanza la ripresa della tradizione, con più o meno coscienza. Un esempio di ripresa cosciente è di sicuro Giuseppe Parini, letterato brianzolo che proviene da una famiglia povera. È proprio questa sua origine che gli conferisce quella tendenza alla praticità, all’utilità che caratterizza i suoi maggiori scritti: Il giorno, che è un invito ad aprire gli occhi alla realtà. Profondamente convinto che sia compito dei nobili il guidare la società, idea non molto illuminista, non ne nasconde però l’inettitudine, che considera generata da un loro decadimento morale. Con questo testo, fa uso della satira per rendere i nobili consapevoli che la vita sregolata che conducono non è coincidente con la grande responsabilità che si devono assumere per nascita, quella di guidare la società verso il bene. Sbatte allora in faccia a questi “bambini mai cresciuti e viziati” la loro stessa vita, dal mattino fino al tramonto, che risulta amaramente vuota, nonostante tutte le facoltà economiche, nel paragone con la vita di un umile contadino, che sarà pure povera ma ricca. Il mezzo per descrivere ciò rimane la ripresa e rielaborazione della cultura classica, elemento con cui si distacca dall’esperienza del Caffè.

I Greci vedevano nell’affermazione di sé, nella estrema valorizzazione della bellezza e grandezza insita nell’uomo l’unica via d’uscita per essere migliori dei loro dei, quegli stessi dei che sadicamente, si divertono a prendersi gioco del destino dell’uomo, infliggendo mali e dolori, godendo delle sue colpe, guardando solo al proprio interesse (non considerando però il pensiero di Eschilo, per cui la colpa è nell’uomo); l’umanità dei Greci è quindi volta all’esaltazione di sé per non soccombere completamente davanti al Caso tiranno. Nella citazione precedente del passo di Kant abbiamo visto lo stesso concetto dei Greci rielaborato alla luce degli anni che lo separano da Sofocle ed Euripide: affermava infatti l’esaltazione dell’individuo attraverso la libertà della sua ragione, intesa come assenza di legami opprimenti e alienanti come la religione e l’intera società. Vittorio Alfieri è la sintesi di questi due aspetti dello stesso pensiero. In ogni parola scritta da lui trapela evidente il forte desiderio di affermare se stesso, di dire “io”: un io potente, deciso ad abbattere tutti gli ostacoli che lo fermino, come dice Kant. Di sicuro non si può dire di Alfieri che era un minorato.
Tutta la sua vita è dedicata a ribellarsi davanti ad ogni “tiranno” che incontrasse, come lo chiama lui nel trattato Della tirannide, e, per fare ciò, ad affermare se stesso; lo testimonia la scelta di scrivere un testo autobiografico, la Vita, e la predilezione per le tragedie. Il destino ritorna avverso, la Fortuna schiaccia l’uomo che non vede esaurirsi i suoi desideri, i suoi progetti, le sue idee. Riprendendo dai Greci il loro spirito saldo e caratterizzato da un immenso sforzo umano, riprende anche le loro forme: si spiega quindi la grande produzione di tragedie con tema mitologico o ebraico, la quasi trasposizione della lingua classica nelle forme, nella metrica, nei riferimenti, nella mentalità e nei contenuti. Ecco che, nella tragedia Saul, si preso in considerazione di nuovo il suicidio come atto massimo di un’anima libera e grande, come succedeva per gli antichi, che preferivano morire che subire una vita spoglia che sminuisse la loro grandezza:

A me il morir da giusto
Niun re può torre: onde il morir mi fia
Dolce non men, che glorioso.

E la stessa decisione viene presa da Saul re, tiranno pure lui, poco prima che i Filistei invasori lo uccidessero, si trafigge il petto:

Eccoti solo, o re; non un ti resta
Dei tanti amici, o servitori tuoi. – Sei paga,
d’Inesorabil Dio terribil ira? –
ma tu, mi resti, o brando: all’ultim’uopo,
fido ministro, or vieni. – Ecco già gli urli
dell’insolente vincitor: sul ciglio
già lor fiaccole ardenti balenarmi
veggio, e le spade a mille… - Empia Filiste,
me troverai, ma almen da re, qui…
morto.-

In questa esasperata ricerca della gloria personale, l’uomo si ritrova solo, perché tutto ciò che è diverso da sé l’ha sempre considerato nemico. Da solo, con la sola cosa che può fare: suicidarsi per preservare almeno la propria dignità, per non farsi sopprimere neanche dalla morte, dall’umiliazione di una morte inflitta, imposta da qualcun altro. Questa è la fine dell’uomo autarchico.
Sorge però un problema nella concezione di Alfieri, nel suo sistema di valori: nel momento in cui si afferma la propria gloria, il proprio io, si diventa tiranno per gli altri; si diventa quel tiranno per cui lui ha teorizzato il cosiddetto “tirannicidio”, si diventa ciò che lui ha sempre voluto eliminare, combattere contrastare. Lui stesso forse diventò così. Grande aporia che l’autore ha deciso di ignorare, se pure ne avesse avuto la coscienza.
È bene notare, per finire, un’influenza in Alfieri della cultura che lo circonda, perché non si pensi che abbia semplicemente copiato qualcosa che già c’era in passato, oltre all’accostamento già fatto con Kant. Ha infatti, come tutti gli illuministi, il desiderio di educare gli altri a vedere la verità, la tendenza ad esternare il suo moto di vivere per coinvolgere, per risvegliare gli altri; riflette infatti sul ruolo della letteratura in questi termini, il cui compito è per lui educare il sentimento dell’uomo, educarlo ad affermare se stesso, ad accrescere la sua ragione e a coltivarla libera da pregiudizi, da schemi, da regole.

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