IL ‘700 ITALIANO E
L’ILLUMINISMO
A legare questo nuovo secolo
della letteratura a quello precedente è l’esperienza dell’Accademia. Nello
stesso tempo, pur mantenendo la stessa forma, quella appunto di un circolo di
intellettuali che condividono un interesse comune, i contenuti si propongono
come innovativi rispetto alla cultura della meraviglia che ha caratterizzato il
Barocco. La nuova Accademia dell’Arcadia, infatti, compie un drastico salto:
dalla ricerca dell’eccezione passa alla ricerca quasi ossessiva (togliendo pure
il “quasi”) della regola. Già il nome ne delinea il profilo: nella poesia
greca, soprattutto, e latina questa regione peloponnesiaca rappresentava
l’emblema della vita pastorale, che qui viene però idealizzata. Un esasperato classicismo,
l’abbandono dell’esametro a favore dei metri latini e greci, i paesaggi
inverosimili, la descrizione di un’aurea felice, spensierata e…vuota,
superficiale. Il risultato è questo:
Sede alle Grazie, nido
agli Amori,
conca di perle, bocca onde
stillano
dolcezze e spirano soavi
odori,
Amor composeti quel
tumidetto
Vivace labbro sotto al
bellissimo,
gentil, sensibile naso
perfetto,
e disse a Venere: - Per sì
bel labbro
prendo il modello
dell’arco proprio;
sovra poi spargovi divin
cinabro,
ove rosseggino d’almi
diletti
fiamme che accendono in
petto nobile
irresistibile desio
d’affetti;
già dalla fulgida vaga tua
stella,
felice nascita sortì
l’altr’alma,
per cui riserbasi bocca s’
bella;
e per reciproca maggior
fortuna,
dono rarissimo
conosceranno
ambe ogni pregio che in
lor s’aduna.
Il risultato è, cioè,
dilettarsi di una poesia che ha come tema il nulla. Più mi impegno, meno riesco
a trovare in questa poesia, Sede alle Grazie, nido agli Amori, che ho
voluto citare per intero per rendere evidente ciò che dico.
Questo secolo è, però, pieno
di contrasti, perché di fianco a questa brutta copia di un’antichità vuota, si
sviluppa qualcosa di diametralmente opposto: sono gli anni in cui fiorisce in
Europa l’Illuminismo.
Questo è il grande secolo
delle rivoluzioni, dell’inizio della modernità, ma tutto questo non tocca quasi
l’Italia; il fulcro di questo movimento che trascina il mondo verso qualcosa di
radicalmente diverso è in Francia, che conoscerà la nascita di filosofi quali
Rosseau, lo stesso Robespierre che ha preso in mano la rivoluzione Francese
portandola ad un principio di dittatura e di totalitarismo, Voltaire, e potrei
citarne molti altri. Nella penisola troviamo un Illuminismo avente gli stessi
principi, ma attuati in modalità differenti, e molto meno diffuso che nella
nazione francese. Questo movimento tocca Napoli, esperienza che però si può
dire esclusiva di un solo autore, Gianbattista Vico, e soprattutto Milano, che esce
da una dimensione regionale per una internazionale. L’inizio che ha scatenato
questo movimento è stata l’esigenza del primato della ragione umana rispetto a
tutti gli altri elementi della realtà, che è l’unico elemento su cui si può
fondare una certezza per l’uomo in questo mondo pieno di inganni. Tutto ciò che
non è ragionevole e che soprattutto impedisce alla ragione dell’uomo fioritura
e sviluppo, deve essere eliminato; il principale bersaglio è la fede religiosa,
che viene considerata come peggior nemico dell’uomo, perché irragionevole. La
religione diventa quindi l’opposto del suo proponimento: un ostacolo all’uomo,
perché identificata con una forma di potere dittatoriale, che sminuisce la
capacità di ragionare dell’uomo, quindi lo abbassa ad uno stato di
sottomissione. Ecco che l’uomo concepisce la propria dipendenza ad un dio come
il De rerum natura di Lucrezio: tutta l’umanità schiacciata sotto il
peso di una gigantesca credenza illusoria ed irragionevole; a riprendere questa
idea è Emmanuel Kant, che riassume ciò nel suo scritto Risposta alla
domanda: che cos’è l’Illuminismo?
L’Illuminismo è l’uscita
dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso.
Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un
altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende
da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di
servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude!
Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza – è dunque il motto
dell’Illuminismo.
In Italia questo pensiero
penetra con toni smorzati a causa delle diverse circostanze vigenti nella penisola:
la mancanza di uno Stato nazionale, la presenza radicata della Chiesa con lo
Stato pontificio e di una tradizione storica ben consapevole. Il movimento, per
quanto riguarda alla letteratura, viene però accolto e incanalato in una
tendenza alla praticità e all’apertura verso un pubblico più ampio che la
cerchia degli intellettuali. Tutto il mondo illuminista infatti si interroga
sul compito dell’intellettuale, dell’illuminato dalla verità della ragione: infatti,
non essendo lui un minorato, per riprendere il passo di Kant, ha il
dovere di illuminare tutti gli altri uomini. L’Illuminismo si pone quindi in
una dimensione sociale, non resta un fatto relegato ad un circolo come fu
l’Accademia dell’Arcadia.
Ciò che penetra
dell’Illuminismo in Italia è proprio questo aspetto sociale: il desiderio di
aprire la cultura a tutto il mondo, ovviamente conservando una tradizione.
Possiamo infatti notare negli scritti di Gianbattista Vico richiami alla
religione cristiana, riferimenti alla Bibbia; nel suo Scienza nuova,
mentre descrive la nascita del senso religioso nei primi uomini, riflette sul
ruolo dei “poeti”:
[…] dalla loro idea
criavan cose, ma con infinita differenza però dal criare che fa Iddio: perocché
nel suo purissimo intendimento, conosce e, conoscendole, cria le cose; essi,
per la loro robusta ignoranza, il facevano in forza d’una corpolentissima
fantasia […], onde furono detti «poeti», che lo stesso in greco suona
«criatori». Che sono li tre lavori che deve fare la poesia grande, cioè di
ritruovare favole sublimi confacenti all’intendimento popolaresco, e che
perturbi all’eccesso, per conseguir il fine, che ella si ha proposto,
d’insegnar il volgo a virtuosamente operare, com’essi l’insegnarono a se
medesimi.
L’illuminato è tale perché
maestro di se stesso, della propria ragione sviluppata, e maestro per gli altri
attraverso la poesia. Si può dire un proponimento simile a quello dei grandi
tragediografi greci, o a quello di Tasso, con l’abissale differenza che per
Vico l’uomo potrebbe “illuminarsi” da sé.
Quindi, se il volgo ignorante
non è più considerato un ammasso di “pidocchi”, come avrebbe detto
Machiavelli, se viene rivalorizzata la potenzialità della ragione, che è comune
a tutti gli uomini, anche i contadini, si può capire la preoccupazione di
Cesare Beccaria volta a preservare una società che sia positiva per ciascun
individuo. Il letterato lombardo, infatti, riflette su un particolare problema
della società a lui contemporanea: quella della pena di morte per i delinquenti
e criminali, che citerò come esempio di cambio di mentalità, di slancio verso
una società sempre migliore, sempre più illuminata. Beccaria espone, infatti,
nel suo Dei delitti e delle pene, il suo pensiero per cui una società
realmente progredita deve essere capace di rieducare l’individuo; la società,
che deve essere illuminata, ha quindi la stessa funzione del poeta-maestro
descritta da Vico. È quindi inutile la pena di morte per i malfattori, perché uccidendoli
si toglie loro la possibilità di cambiare, la possibilità di diventare uomini
illuminati, di diventare a loro volta maestri. La società deve essere quindi in
grado di correggere gli sbagli dei suoi figli senza crudeltà, ma con pazienza;
solo così i può dare l’occasione di rifiorire a ciascuno.
Il desiderio di praticità di
Beccaria e di aprire gli orizzonti della cultura a tutti come Vico, è
sviluppato in modalità totalmente innovative e più accorato dai fratelli Pietro
e Alessandro Verri: i fondatori della prima rivista giornalistica italiana, il Caffè.
Stufi di una letteratura votata alla sola gloria personale, contrari a
un’inefficace classicismo che si rivela incomprensibile per la maggior parte
delle persone, convinti della necessità di un’innovazione totale nella
letteratura italiana, propongono qualcosa di mai visto, un esperimento vivace e
nuovo per la storia. Vi ripropongo l’articolo di apertura del giornale, con il
quale questo attivo gruppo di intellettuali milanesi presenta se stesso:
Cos’è questo "Caffè"? È un foglio di stampa che si pubblicherà ogni
dieci giorni. Cosa conterrà questo foglio di stampa? Cose
varie, cose disparatissime, cose inedite, cose fatte da diversi autori,
cose tutte dirette alla pubblica utilità. Va bene: ma con quale stile
saranno eglino scritti questi fogli? Con ogni stile, che non annoi. E
sin a quando fate voi conto di continuare quest’opera? Insin a tanto
che avranno spaccio. Se il pubblico si determina a leggerli, noi continueremo
per un anno, e per più ancora, e in fine d’ogni anno dei trentasei fogli se ne
farà un tomo di mole discreta: se poi il pubblico non li legge, la nostra
fatica sarebbe inutile, perciò ci fermeremo anche al quarto, anche al terzo
foglio di stampa. Qual fine vi ha fatto nascere un tal progetto? Il
fine d’una aggradevole occupazione per noi, il fine di far quel bene, che
possiamo alla nostra patria, il fine di spargere delle utili cognizioni fra
i nostri cittadini, divertendoli, come già altrove fecero e Steele, e
Swift, e Addison, e Pope, ed altri. Ma perché chiamate questi fogli
"Il Caffè"? Ve lo dirò; ma andiamo a capo.
Un Greco originario di
Citera, isoletta riposta fra la Morea e Candia, mal soffrendo l’avvilimento e
la schiavitù, in cui i Greci tutti vengon tenuti dacché gli Ottomani hanno
conquistata quella contrada, e conservando un animo antico malgrado
l’educazione e gli esempi, son già tre anni che si risolvette d’abbandonare il
suo paese: egli girò per diverse città commercianti, da noi dette le scale
del Levante; egli vide le coste del Mar Rosso, e molto si trattenne in Mocha,
dove cambiò parte delle sue merci in caffè del più squisito che dare si possa
al mondo; indi prese il partito di stabilirsi in Italia, e da Livorno sen venne
in Milano, dove son già tre mesi che ha aperta una bottega addobbata con
ricchezza ed eleganza somma. In essa bottega primieramente si beve un caffè che
merita il nome veramente di caffè; caffè vero verissimo di Levante, e profumato
col legno d’aloe, che chiunque lo prova, quand’anche fosse l’uomo il più grave,
l’uomo il più plombeo della terra bisogna che per necessità si risvegli, e
almeno per una mezz'ora diventi uomo ragionevole. In essa bottega vi sono
comodi sedili, vi si respira un'aria sempre tepida e profumata che consola: la
notte è illuminata, cosicché brilla in ogni parte l’iride negli specchi e ne’
cristalli sospesi intorno le pareti e in mezzo alla bottega; in essa bottega
chi vuol leggere trova sempre i fogli di novelle politiche, e quei di Colonia,
e quei di Sciaffusa, e quei di Lugano, e vari altri; in essa bottega chi vuol
leggere trova per suo uso e il Giornale Enciclopedico, e l’Estratto della
letteratura Europea, e simili buone raccolte di novelle interessanti, le quali
fanno che gli uomini che in prima erano romani, fiorentini, genovesi, o
lombardi, ora sieno tutti presso a poco europei; in essa bottega v’è di più un
buon atlante, che decide le questioni che nascono nelle nuove politiche; in
essa bottega per fine si radunano alcuni uomini, altri ragionevoli, altri
irragionevoli, si discorre, si parla, si scherza, si sta sul serio; ed io, che
per naturale inclinazione parlo poco, mi sono compiaciuto di registrare tutte
le scene interessanti che vi vedo accadere, e tutt’i discorsi che vi ascolto
degni da registrarsi; e siccome mi trovo d’averne già messi in ordine vari,
così li do alle stampe col titolo Il Caffè, poiché appunto son nati in una
bottega di caffè.
Il linguaggio cambia
completamente: niente più grecismi, ma domina il parlato, domande dirette al
lettore, narratore in prima persona, ironia, leggerezza e assoluta chiarezza.
Una chiarezza che invita a farsi incontrare dalla gente. È uno stile nuovo
volto alla comprensione immediata, non dedito alla bellezza estetica, formale
del classicismo. La bellezza sta invece nella semplicità, nella limpidezza, nel
rapporto diretto tra autore e lettore che non è più filtrato da allegorie o
dall’ostacolo di una lingua forbita o di riferimenti colti. Si abbandona
completamente il complicato periodo architettonico per una schietta
presentazione dello scritto che segue l’ordine del pensiero, tecnica presa in
prestito dai francesi. Ripudiando una letteratura frutto di un artificio, e
mettendosi quindi in contrasto con l’Accademia dell’Arcadia, propongono il
valore dell’efficacia, di una letteratura che apra alla realtà, ai suoi
problemi, alle sue necessità, e che richiede il contributo di tutti. Purtroppo
questo vivace esperimento dura ben poco: dopo un anno e mezzo si smette la
pubblicazione di nuove copie.
Carlo Goldini è un altro
portatore di innovazione in Italia, nell’ambito però del mondo teatrale. La
novità che porta è essenzialmente quella di considerare il teatro specchio
della vita, palcoscenico del mondo, con cui l’azione teatrale si ritrova ad
essere in rapporto biunivoco. Ed ecco che gli spettatori italiani si vedono
catapultare su un palco pubblico la loro vita quotidiana, e non il grande
dramma di eroi lontani. Ricchi, poveri, bambini, vecchi bisbetici, vecchi
saggi, donne spendaccione, uomini innamorati, uomini d’affari, ragazze
sognatrici, domestiche furbe, domestici più pragmatici dei loro padroni, amori
nascosti, amiche ingenue, adulti bambini e molto altro. In questo senso
l’azione teatrale ha la stessa funzione della letteratura: quella educativa,
perché mostra a tutti (e qui si nota l’apertura del messaggio al mondo intero) la
realtà in cui loro stessi sono immersi, invitando quindi a giudicarla e a
correggersi.
Come ho detto
precedentemente, questa influenza dell’Illuminismo è un fatto relegato, si può
dire, alla sola realtà milanese, mentre nel settecento italiano prevale in gran
istanza la ripresa della tradizione, con più o meno coscienza. Un esempio di
ripresa cosciente è di sicuro Giuseppe Parini, letterato brianzolo che proviene
da una famiglia povera. È proprio questa sua origine che gli conferisce quella
tendenza alla praticità, all’utilità che caratterizza i suoi maggiori scritti: Il
giorno, che è un invito ad aprire gli occhi alla realtà. Profondamente
convinto che sia compito dei nobili il guidare la società, idea non molto
illuminista, non ne nasconde però l’inettitudine, che considera generata da un
loro decadimento morale. Con questo testo, fa uso della satira per rendere i
nobili consapevoli che la vita sregolata che conducono non è coincidente con la
grande responsabilità che si devono assumere per nascita, quella di guidare la
società verso il bene. Sbatte allora in faccia a questi “bambini mai cresciuti
e viziati” la loro stessa vita, dal mattino fino al tramonto, che risulta
amaramente vuota, nonostante tutte le facoltà economiche, nel paragone con la
vita di un umile contadino, che sarà pure povera ma ricca. Il mezzo per
descrivere ciò rimane la ripresa e rielaborazione della cultura classica,
elemento con cui si distacca dall’esperienza del Caffè.
I Greci vedevano
nell’affermazione di sé, nella estrema valorizzazione della bellezza e
grandezza insita nell’uomo l’unica via d’uscita per essere migliori dei loro
dei, quegli stessi dei che sadicamente, si divertono a prendersi gioco del
destino dell’uomo, infliggendo mali e dolori, godendo delle sue colpe,
guardando solo al proprio interesse (non considerando però il pensiero di
Eschilo, per cui la colpa è nell’uomo); l’umanità dei Greci è quindi volta all’esaltazione
di sé per non soccombere completamente davanti al Caso tiranno. Nella citazione
precedente del passo di Kant abbiamo visto lo stesso concetto dei Greci
rielaborato alla luce degli anni che lo separano da Sofocle ed Euripide:
affermava infatti l’esaltazione dell’individuo attraverso la libertà della sua
ragione, intesa come assenza di legami opprimenti e alienanti come la religione
e l’intera società. Vittorio Alfieri è la sintesi di questi due aspetti dello
stesso pensiero. In ogni parola scritta da lui trapela evidente il forte
desiderio di affermare se stesso, di dire “io”: un io potente, deciso ad
abbattere tutti gli ostacoli che lo fermino, come dice Kant. Di sicuro non si
può dire di Alfieri che era un minorato.
Tutta la sua vita è dedicata
a ribellarsi davanti ad ogni “tiranno” che incontrasse, come lo chiama lui nel
trattato Della tirannide, e, per fare ciò, ad affermare se stesso; lo
testimonia la scelta di scrivere un testo autobiografico, la Vita, e la
predilezione per le tragedie. Il destino ritorna avverso, la Fortuna schiaccia
l’uomo che non vede esaurirsi i suoi desideri, i suoi progetti, le sue idee. Riprendendo
dai Greci il loro spirito saldo e caratterizzato da un immenso sforzo umano,
riprende anche le loro forme: si spiega quindi la grande produzione di tragedie
con tema mitologico o ebraico, la quasi trasposizione della lingua classica
nelle forme, nella metrica, nei riferimenti, nella mentalità e nei contenuti. Ecco
che, nella tragedia Saul, si preso in considerazione di nuovo il
suicidio come atto massimo di un’anima libera e grande, come succedeva per gli
antichi, che preferivano morire che subire una vita spoglia che sminuisse la
loro grandezza:
A me il morir da giusto
Niun re può torre: onde il
morir mi fia
Dolce non men, che
glorioso.
E la stessa decisione viene
presa da Saul re, tiranno pure lui, poco prima che i Filistei invasori lo
uccidessero, si trafigge il petto:
Eccoti solo, o re; non un
ti resta
Dei tanti amici, o
servitori tuoi. – Sei paga,
d’Inesorabil Dio terribil
ira? –
ma tu, mi resti, o brando:
all’ultim’uopo,
fido ministro, or vieni. –
Ecco già gli urli
dell’insolente vincitor:
sul ciglio
già lor fiaccole ardenti
balenarmi
veggio, e le spade a
mille… - Empia Filiste,
me troverai, ma almen da
re, qui…
morto.-
In questa esasperata ricerca
della gloria personale, l’uomo si ritrova solo, perché tutto ciò che è diverso
da sé l’ha sempre considerato nemico. Da solo, con la sola cosa che può fare:
suicidarsi per preservare almeno la propria dignità, per non farsi sopprimere
neanche dalla morte, dall’umiliazione di una morte inflitta, imposta da qualcun
altro. Questa è la fine dell’uomo autarchico.
Sorge però un problema nella
concezione di Alfieri, nel suo sistema di valori: nel momento in cui si afferma
la propria gloria, il proprio io, si diventa tiranno per gli altri; si diventa
quel tiranno per cui lui ha teorizzato il cosiddetto “tirannicidio”, si diventa
ciò che lui ha sempre voluto eliminare, combattere contrastare. Lui stesso
forse diventò così. Grande aporia che l’autore ha deciso di ignorare, se pure
ne avesse avuto la coscienza.
È
bene notare, per finire, un’influenza in Alfieri della cultura che lo circonda,
perché non si pensi che abbia semplicemente copiato qualcosa che già c’era in
passato, oltre all’accostamento già fatto con Kant. Ha infatti, come tutti gli
illuministi, il desiderio di educare gli altri a vedere la verità, la tendenza
ad esternare il suo moto di vivere per coinvolgere, per risvegliare gli altri;
riflette infatti sul ruolo della letteratura in questi termini, il cui compito
è per lui educare il sentimento dell’uomo, educarlo ad affermare se stesso, ad
accrescere la sua ragione e a coltivarla libera da pregiudizi, da schemi, da
regole.
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