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domenica 3 febbraio 2013

PLATONE - Il mito di Er


-          Mito di Er (= soldato che racconta la sua esperienza dopo la morte, di cui riesce a ricordare tutto)
       » si narra di come le anime ritornano su questa terra, terminato il loro viaggio millenario
       » le anime si radunano su una pianura dove viene stabilito il loro destino futuro
       » sono gli dei e la Necessità a decidere il destino dell’uomo (rivoluzione della tradizione greca)
       » la Moira, figlia della Necessità (che per la tradizione greca era lei stessa il destino dell’uomo,
         misterioso anche per gli dei, al cui potere si dovevano sottoporre), possiede i “paradigmi” delle vite
       » non sono imposti, ma proposti alle anime, che hanno libertà di scegliere che caratteristiche vuole
         condurre, approfondire nella vita corporea » ciò che decide è la ragione umana
       » gli dei hanno il potere di decidere della tua vita o morte, ma non di come vivere moralmente
       » le anime più pure scelgono corpi malati, umili, poco illustri, ma più capaci di ricercare il Bello e le
          idee, capaci di prepararsi per la felicità ultraterrena. Le anime sciocche scelgono eroi che hanno
          successo materiale ma non spirituale, in cui è più difficile fare il percorso di conoscenza
       » la conoscenza, la scienza della vita buona/cattiva, cioè la filosofia determina la scelta
       » la filosofia diventa ciò che salva l’uomo nella vita terrena e ultraterrena, per sempre
       » intellettualismo etico: la filosofia sviluppa la mente che andrà a scegliere il tenore di vita futura
       » per Platone, un’anima nella sua natura è già predisposta per il tenore di vita che andrà a vivere
       » viene evidenziata una certa responsabilità da parte dell’uomo, che avrà la colpa di cosa sceglie
       » una volta scelto il “paradigma” di vita, le anime bevono alla fonte del fiume Amelete, che fa
          dimenticare loro ciò che hanno veduto nell’ultraterreno, senza cancellarlo completamente
       » le anime conoscono già da prima il destino del corpo in cui si reincarnano, poi se ne dimenticano
       » il compito dell’uomo diventa quindi vivere coerentemente al destino che ha scelto
       » se mi incarno in un destino peggiore, non potrò mai più passare ad uno migliore (l’etica è un
          habitus, per cui se mi comporto male lo farò per sempre » non c’era la concezione di volontà)

Repubblica, 614 a-621 d 
1             [614 a] Ecco dunque, dissi, quali sono i premi, le mercedi e i doni che il giusto ottiene da
vivo dagli dèi e dagli uomini, oltre a quei beni che la giustizia procurava per se stessa. – Certo,
ammise; beni belli e sicuri. – Ma questo è nulla, replicai, per quantità e per grandezza, rispetto a ciò
che attende dopo la morte sia il giusto sia l’ingiusto. E bisogna parlarne, perché ciascuno dei due
riceva esattamente ciò che il discorso gli deve. – [b] Parlane pure, rispose. Ben poche sono le cose
che mi offrono maggiore diletto quando le ascolto. – Non ti racconterò certo un apologo di Alcínoo,
feci io, ma la storia di un valoroso, Er figlio di Armenio, di schiatta panfilia. Costui era morto in
guerra e quando dopo dieci giorni si raccolsero i  cadaveri già putrefatti, venne raccolto ancora
incorrotto. Portato a casa, nel dodicesimo giorno stava per essere sepolto. Già era deposto sulla pira
quando risuscitò e, risuscitato, prese a raccontare quello che aveva veduto nell’aldilà. Ed ecco il suo
racconto. Uscita dal suo corpo, l’anima  aveva camminato insieme con molte [c] altre ed erano
arrivate a un luogo meraviglioso, dove si aprivano due voragini nella terra, contigue, e di fronte a
queste, alte nel cielo, altre due. In mezzo sedevano dei giudici che, dopo il giudizio, invitavano i
giusti a prendere la strada di destra che saliva attraverso il cielo, dopo aver loro apposto dinanzi i
segni della sentenza; e gli ingiusti invece a prendere la strada di sinistra, in discesa. E anche questi
avevano, ma sul dorso, i segni di tutte le [d] loro azioni passate. Quando si era avanzato lui, gli
avevano detto che avrebbe dovuto descrivere agli uomini il mondo dell’aldilà, e che lo esortavano
ad ascoltare e contemplare tutto quello che c’era in quel luogo. E lí vedeva le anime che, dopo avere
sostenuto il giudizio, se ne andavano per una delle due voragini, sia del cielo sia della terra;
attraverso le altre due passavano altre anime: dall’una, sozze e polverose, quelle che risalivano dalla
terra; dall’altra, monde, altre che scendevano dal cielo. E [e] quelle che via via arrivavano
sembravano venire come da un lungo cammino. Liete raggiungevano il prato per accamparvisi
come in festiva adunanza. E tutte quelle che si conoscevano si scambiavano affettuosi saluti: quelle
che provenivano dalla terra chiedevano alle altre notizie del mondo celeste, quelle che provenivano
dal cielo notizie del mondo sotterraneo. Si scambiavano i racconti, le prime [615  a] gemendo e
piangendo perché ricordavano tutti i vari patimenti e spettacoli che avevano avuti nel loro cammino
sotterraneo (un cammino millenario), mentre le seconde narravano i godimenti celesti e le visioni di
straordinaria bellezza. Molto tempo, Glaucone, occorrerebbe per i molti particolari, ma la sostanza
del suo racconto era questa: per tutte le ingiustizie commesse e per tutte le persone offese da
ciascuno, avevano pagato la pena un caso dopo l’altro, e per ciascun caso dieci volte tanto (questo
avveniva ogni [b] cento anni, perché tale è la durata della vita umana). Ciò perché il castigo subíto
fosse il decuplo della colpa: perché ad esempio, i responsabili della morte di molte persone per aver
tradito città o eserciti, e coloro che molte ne avessero ridotte in schiavitú o fossero stati complici di
altri misfatti, per ciascuno di tutti questi delitti riportassero sofferenze decuple; e, viceversa, perché
coloro che avessero fatto dei benefíci e fossero stati giusti e pii, fossero premiati nella [c] medesima
proporzione. Altro diceva dei morti súbito dopo la nascita e dei vissuti breve tempo, ma sono cose
che non merita ricordare. Ancora maggiori, secondo il suo racconto, erano le mercedi per l’empietà
e la pietà verso gli dèi e i genitori e per l’omicidio. Asseriva infatti di essersi appunto trovato
accanto a uno cui un altro chiedeva dove fosse il grande Ardieo. Questo Ardieo era stato tiranno in
una città della Panfilia, mille anni prima, e, come si [d] diceva, aveva ucciso il vecchio padre e il
fratello maggiore, e si era macchiato di molte  altre nefandezze. L’interrogato, riferiva Er, aveva
risposto: “Non viene né potrebbe venir qui”.
2             “Infatti tra gli altri orrendi spettacoli abbiamo veduto anche questo. Come fummo presso
lo sbocco, lí lí per risalire e trovandoci ad aver subíto tutte le altre prove, d’improvviso scorgemmo
lui e altri, per lo piú tiranni, ma c’era anche  gente privata, colpevole di gravi peccati. Essi [e]
credevano ormai che sarebbero risaliti, ma lo sbocco non li riceveva, anzi emetteva un muggito ogni
volta che uno di questi scellerati inguaribili o uno  che non avesse ancora espiato nella misura
dovuta tentava di salire”. Lí presso, raccontava, c’erano uomini feroci, tutti fuoco a vedersi, che
sentendo quel boato afferravano gli uni a mezzo il corpo e li trascinavano via, ma ad Ardieo e ad
altri avevano [616  a] legato mani, piedi e testa, li avevano gettati a terra  e scorticati, e li
trascinavano lungo la strada, dalla parte esterna, straziandoli su piante di aspalato. E a coloro che
via via sopraggiungevano, spiegavano quali erano  le ragioni di tutto questo aggiungendo che li
conducevano via per gettarli nel Tartaro. Laggiú, continuava, avevano provato molti terrori di ogni
genere, ma tutti li superava la paura che ciascuno aveva di sentire quel boato al momento di salire.
E ciascuno era stato molto contento di venir su senza sentirlo. Queste erano all’incirca le pene e i
castighi [b] e le corrispondenti ricompense. Quando i singoli gruppi che si trovavano nel prato vi
avevano trascorso sette giorni, nell’ottavo dovevano levarsi di lí e mettersi in cammino, per
giungere nel quarto giorno in un luogo donde potevano scorgere, tesa dall’alto  attraverso tutto il
cielo e la terra, una luce diritta come una colonna, molto simile all’arcobaleno, ma piú intensa e piú
pura. Vi erano arrivati dopo un giorno di marcia e colà avevano veduto, [c] in mezzo alla luce, tese
dal cielo, le estremità dei suoi legami. Era questa luce a tenere avvinto il cielo e, come le gomene
esterne delle triremi, a tenere insieme tutta la circonferenza. Alle estremità era sospeso il fuso di
Ananke [la personificazione del Destino immutabile], per il quale giravano tutte le sfere. Il suo
fusto e l’uncino erano di diamante,  il fusaiolo una mescolanza di diamante e di altre materie. Il
fusaiolo aveva questa natura: [d] per la figura era come quello che si usa in questo nostro mondo,
ma il racconto di Er deve far pensare che fosse costruito come se entro un grande fusaiolo cavo e
interamente intagliato fosse incastrato un altro consimile, ma piú piccolo, come quei vasi che
entrano esattamente l’uno [e] nell’altro; e cosí un terzo, un quarto e altri quattro. Tutti insieme i
fusaioli erano otto, incastrati l’uno nell’altro, e  superiormente mostravano i loro orli circolari;
costituivano il dorso continuo di un unico fusaiolo accentrato sul fusto e il fusto passava da parte a
parte l’ottavo fusaiolo lungo l’asse mediano. Il  primo fusaiolo, il piú esterno, aveva il cerchio
dell’orlo molto largo. Seguivano poi in ordine decrescente il sesto, il quarto, l’ottavo, il settimo, il
quinto, il terzo, il secondo. Il cerchio del maggiore era variegato, quello del settimo lucentissimo,
quello [617 a] dell’ottavo riceveva il colore dal settimo che lo illuminava, quelli del secondo e del
quinto si somigliavano, ma erano piú gialli dei precedenti; il terzo aveva una tinta bianchissima, il
quarto rossastra, il sesto veniva al secondo posto per bianchezza. Il fuso ruotava tutto volgendosi
con moto uniforme e nel girare dell’insieme i sette cerchi interni giravano lenti in direzione opposta.
Il piú rapido era l’ottavo, [b] secondi venivano, tutti insieme, il settimo, il sesto e il quinto; terzo in
questo moto rotatorio era, come appariva a quelle anime, il quarto; quarto e quinto rispettivamente
il terzo e il secondo. Il fuso si volgeva sulle ginocchia di Ananke. Sull’alto di ciascuno dei suoi
cerchi stava una Sirena che, trascinata in quel movimento circolare, emetteva un’unica nota su un
unico tono; e tutte otto le note creavano un’unica armonia. Altre tre donne sedevano in cerchio a [c]
eguali distanze, ciascuna su un trono: erano le sorelle di Ananke, le Moire, in abiti bianchi e con
serti sul capo, Lachesi Cloto Atropo. E cantavano in armonia con le Sirene: Lachesi il passato,
Cloto il presente, Atropo il futuro. Cloto a intervalli toccava con la  destra il fuso e ne
accompagnava il giro esterno, cosí come faceva Atropo con la sinistra per [d] i giri interni; e
Lachesi con l’una e con l’altra mano toccava ora i giri interni ora quello esterno.Al loro arrivo, le
anime dovevano presentarsi a Lachesi. E un araldo divino prima le aveva disposte in fila, poi aveva
preso dalle ginocchia di Lachesi le sorti e vari tipi di vita, era salito su un podio elevato e aveva
detto: “Parole della vergine Lachesi sorella di  Ananke. Anime dall’effimera esistenza corporea,
incomincia per voi un altro periodo di generazione mortale, preludio a nuova [e] morte. Non sarà un
dèmone a scegliere voi, ma sarete voi a scegliervi il dèmone. Il primo che la sorte designi scelga per
primo la vita cui sarà poi irrevocabilmente legato. La virtú non ha padrone; secondo che la onori o a spregi, ciascuno ne avrà piú o meno. La responsabilità è di chi sceglie, il dio non è responsabile”.
Con ciò aveva scagliato al di sopra di tutti i convenuti le sorti e ciascuno raccoglieva quella che gli
era caduta vicino, salvo Er, cui non era permesso di farlo. Chi l’aveva raccolta vedeva chiaramente
il numero da lui sorteggiato. [618 a] Subito dopo <l’araldo> aveva deposto per terra davanti a loro i
vari tipi di vita, in numero molto maggiore dei presenti. Ce n’erano di ogni genere: vite di
qualunque animale e anche ogni forma di vita umana. C’erano tra esse tirannidi, quali durature,
quali interrotte a metà e concludentisi in povertà, esilio e miseria. C’erano pure vite di uomini
celebri o per l’aspetto esteriore, per la bellezza, per il [b] vigore fisico in genere e per l’attività
agonistica, o per la nascita e le virtú di antenati; e vite di gente oscura da questi punti di vista, e cosí
pure vite di donne. Non c’era però una gerarchia di anime, perché l’anima diventava
necessariamente diversa a seconda della vita che sceglieva. Il resto era tutto mescolato insieme:
ricchezza e povertà o malattie e salute; e c’era anche una forma intermedia tra questi estremi. Lí,
come sembra, caro Glaucone, appare tutto il pericolo per l’uomo; e per questo ciascuno [c] di noi
deve stare estremamente attento a cercare e ad apprendere questa disciplina senza curarsi delle altre,
vedendo se riesce ad apprendere questa disciplina senza curarsi delle altre, vedendo se riesce ad
apprendere e a scoprire chi potrà comunicargli la capacità e la scienza di discernere la vita onesta e
la vita trista e di scegliere sempre e dovunque la migliore di quelle che gli sono possibili: ossia,
calcolando quali effetti hanno sulla virtú della vita tutte le cose che ora abbiamo dette, considerate
insieme o separatamente, sapere che cosa produca la bellezza mescolata a povertà [d] o ricchezza,
se cioè un male o un bene, e quale condizione dell’anima a ciò concorra, e quale effetto producano
con la loro reciproca mescolanza la nascita nobile e ignobile, la vita privata e i pubblici uffici, la
forza e la debolezza, la facilità e la difficoltà d’apprendere, e ogni altra simile qualità connaturata
all’anima o successivamente acquisita. Cosí, tirando le conclusioni di tutto questo, egli potrà,
guardando la natura dell’anima, scegliere una vita peggiore [e] o una vita migliore, chiamando
peggiore quella che la condurrà a farsi piú ingiusta, migliore quella che la condurrà a farsi piú
giusta. E tutto il resto lo lascerà perdere. Abbiamo veduto che è questa la scelta migliore, da vivo
[619  a] come da morto. Con questa adamantina opinione egli deve scendere nell’Ade, per non
lasciarsi neppure lí impressionare dalle ricchezze e da simili mali, per non gettarsi sulle tirannidi e
altre condotte del genere e quindi commettere molti insanabili mali, e per non patirne lui stesso di
ancora maggiori; ma per sapere sempre scegliere tra cotali vite quella mediana e fuggire gli eccessi
nell’uno e nell’altro senso, sia, per quanto è possibile, in questa nostra vita, sia in tutta la vita futura.
Cosí l’uomo può raggiungere [b] il colmo della felicità.
3             In quel momento, dunque, secondo  quanto narrava il nunzio che  veniva di là, l’araldo
divino aveva parlato cosí: “Anche chi si presenta ultimo, purché scelga con senno e viva con regola,
può disporre di una vita amabile, non cattiva. Il primo cerchi di scegliere con cura e l’ultimo non si
scoraggi”. A queste parole, raccontava Er, colui che aveva avuto la prima sorte si era subito
avanzato e aveva scelto la maggiore tirannide. A questa scelta era stato spinto dall’insensatezza e
dall’ingordigia, senza averne [c] abbastanza valutato tutte le conseguenze. E cosí non s’era accorto
che il fato racchiuso in quella scelta gli riservava la sorte di divorarsi i figli, e altri mali. Quando
l’aveva esaminata a suo agio, si percoteva e si lamentava della scelta, senza tenere presenti le
avvertenze dell’araldo divino. Non già incolpava se stesso dei mali, ma la sorte e i dèmoni, tutto
insomma eccetto sé. Egli apparteneva al gruppo che  veniva dal cielo e nella vita precedente era
vissuto in un [d]8 regime ben ordinato, ma aveva acquistato virtú per abitudine, senza filosofia. E
per quanto se ne poteva dire, tra coloro che si lasciavano sorprendere in simili imprudenze non
erano i meno quelli che venivano dal cielo: perché erano inesperti di sofferenze. Invece coloro che
venivano dalla terra, per lo piú non operavano le loro scelte a precipizio: perché avevano essi stessi
sofferto o veduto altri soffrire. Anche per questo, oltre che per la fortuna nel sorteggio, la maggior
parte delle anime permutava mali con beni e beni con mali. Perché se uno, quando arriva a questa
nostra vita, pratica sempre sana filosofia, e se nel momento [e] della scelta la sorte non gli cade tra
le ultime, ha buone probabilità, secondo le notizie di lí riferite, non solo di essere felice in questo mondo, ma anche di compiere il viaggio da qui a lí e da lí a qui non per una strada sotterranea e
aspra, ma liscia e celeste. Meritava poi vedere, diceva, come le singole anime sceglievano le loro
vite. [620  a] Spettacolo insieme miserevole, ridicolo e meraviglioso! La maggioranza sceglieva
secondo le abitudini contratte nella vita precedente. Diceva d’avere veduto l’anima che era stata un
tempo di Orfeo intenta a scegliere la vita di un cigno: non voleva nascere da grembo di donna per
l’odio che nutriva verso il sesso femminile che aveva cagionato la sua morte [disperato per non
essere riuscito a riportare dall’Ade alla vita terrena la sposa Euridice, orfeo vagava per le montagne
della Tracia sfogando il suo dolore, quando, imbattutosi in uno stuolo di Baccanti, ne venne
selvaggiamente dilaniato]; e l’anima di Tamiri [fu il primo dei cantori di corte; narrava la leggenda
che, insuperbitosi per la propria bravura, volle gareggiare con le Muse e ne fu accecato per
punizione] scegliere la vita di un usignolo. Aveva visto anche un cigno che con la sua scelta mutava
la propria vita in quella umana, e cosí pure [b] altri animali canori. L’anima che era stata designata
ventesima dalla sorte aveva scelto la vita di un leone: era quella di Aiace Telamonio, che rifuggiva
dal diventare uomo ricordandosi del giudizio relativo alle armi [si tratta della contesa per le armi di
Achille aggiudicate a Odisseo anziché ad Aiace che se ne riteneva piú meritevole; di qui la ragione
del corruccio dell’ombra di Aiace quando Odisseo scende nell’Ade (Odissea, XI, 543-565)]. Dopo
di lui veniva quella di Agamennone: anche questa, per ostilità verso il genere umano dovuta alle
sofferenze patite, aveva scambiato la sua vita con quella di un’aquila. Posta dalla sorte nel gruppo di
mezzo, l’anima di Atalanta, come aveva scorto  grandi onori riservati  a un atleta, non era stata
capace di passare oltre e li aveva [c] raccolti [Atalanta, celebre per la velocità nella corsa, fu vinta
tuttavia da Ippomene che durante la gara le gettò magnifiche mele che ella si fermò a raccogliere].
Dopo di lei, aveva visto l’anima di Epeo, figlio di Panopeo [Epeo fu un pugile che partecipò alla
guerra di Troia; Omero ne ricorda l’incontro avventuroso con Eurialo (Iliade, XXIII, 664-700) e la
costruzione del famoso cavallo di legno sotto la guida di Atena (Odissea, VIII, 492 e segg.; XI,
523)], assumere la natura di una donna operaia; lontano, tra gli ultimi, quella del buffone Tersite
penetrare in una scimmia [Tersite è il popolano guercio, zoppo e gobbo che vomita ingiurie contro i
comandanti greci e propone la ritirata da Troia dell’esercito acheo, finché Odisseo non lo riduce al
silenzio bastonandolo con lo scettro (Iliade, II, 212-277)]. S’era avanzata poi a scegliere l’anima di
Odísseo, cui il caso aveva riservato l’ultima sorte: ridotta senza ambizioni dal ricordo dei precedenti
travagli, se n’era andata a lungo  in giro cercando la vita di un  privato individuo schivo di ogni
seccatura. E non senza pena l’aveva [d] trovata, gettata in un canto e negletta dalle altre anime; e al
vederla aveva detto che si sarebbe comportata nel medesimo modo anche se la sorte l’avesse
designata per prima; e se l’era presa tutta contenta. E nello stesso modo passavano dalle altre bestie
in uomini e dalle une nelle altre: le ingiuste si trasformavano in quelle selvagge, le giuste in quelle
mansuete. Si facevano mescolanze di ogni genere. Dopoché tutte le anime avevano scelto le
rispettive vite, si presentavano a Lachesi nell’ordine stabilito dalla sorte. A ciascuno ella dava come
compagno il dèmone che quegli s’era preso,  perché gli fosse guardiano durante la [e] vita e
adempisse il destino da lui scelto. Ed esso guidava l’anima anzitutto da Cloto, a confermare, sotto la
sua mano e sotto il giro del fuso, il destino che s’era scelta dopo il sorteggio. Poi toccava questo e
quindi la conduceva alla trama tessuta da Atropo rendendo inalterabile il destino una volta filato. Di
lí senza volgersi <ciascuno> si recava sotto [621 a] il trono di Ananke e gli passava dall’altra parte.
Dopoché anche gli altri erano passati, tutti si dirigevano verso la pianura del Lete in una tremenda
calura e afa. Era una pianura priva d’alberi e di qualunque prodotto della terra. Al calare della sera,
essi si accampavano sulla sponda del fiume Amelete, la cui acqua non può essere contenuta da vaso
alcuno. E tutti erano obbligati a berne una certa misura, ma chi non era frenato dall’intelligenza ne
beveva [b] di piú della misura. Via via che uno beveva, si scordava di tutto. Poi s’erano
addormentati, quando, a mezzanotte, era scoppiato  un tuono e s’era prodotto un terremoto: e
d’improvviso, chi di qua, chi di là, eccoli portati in su a nascere, ratti filando come stelle cadenti.
Lui, Er, aveva ricevuto divieto di bere quell’acqua. Per dove e come avesse raggiunto il suo corpo
non sapeva. Sapeva soltanto che d’un tratto aveva aperto gli occhi e s’era veduto all’alba giacere
sulla pira. E cosí, Glaucone, s’è salvato il mito e non è [c] andato perduto. E potrà salvare anche noi, se gli crediamo; e noi attraverseremo bene il fiume Lete e non insozzeremo l’anima nostra. Se
mi darete ascolto e penserete che l’anima è immortale, che può soffrire ogni male e godere ogni
bene, sempre ci terremo alla via che porta in alto e coltiveremo in ogni modo la giustizia insieme
con l’intelligenza, per essere amici a noi stessi e agli dèi, sia finché [d] resteremo qui, sia quando
riporteremo i premi della giustizia, come chi vince nei giochi raccoglie in giro il suo premio; e per
vivere felici in questo mondo e nel millenario cammino che abbiamo descritto.

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