MITOLOGIA PLATONICA
MITO DI ER
Repubblica,
614 a-621 d
1 [614 a] Ecco dunque, dissi, quali
sono i premi, le mercedi e i doni che il giusto ottiene da
vivo
dagli dèi e dagli uomini, oltre a quei beni che la giustizia procurava per se
stessa. – Certo,
ammise;
beni belli e sicuri. – Ma questo è nulla, replicai, per quantità e per
grandezza, rispetto a ciò
che
attende dopo la morte sia il giusto sia l’ingiusto. E bisogna parlarne, perché
ciascuno dei due
riceva
esattamente ciò che il discorso gli deve. – [b] Parlane pure, rispose. Ben
poche sono le cose
che
mi offrono maggiore diletto quando le ascolto. – Non ti racconterò certo un
apologo di Alcínoo,
feci
io, ma la storia di un valoroso, Er figlio di Armenio, di schiatta panfilia.
Costui era morto in
guerra
e quando dopo dieci giorni si raccolsero i
cadaveri già putrefatti, venne raccolto ancora
incorrotto.
Portato a casa, nel dodicesimo giorno stava per essere sepolto. Già era deposto
sulla pira
quando
risuscitò e, risuscitato, prese a raccontare quello che aveva veduto
nell’aldilà. Ed ecco il suo
racconto.
Uscita dal suo corpo, l’anima aveva
camminato insieme con molte [c] altre ed erano
arrivate
a un luogo meraviglioso, dove si aprivano due voragini nella terra, contigue, e
di fronte a
queste,
alte nel cielo, altre due. In mezzo sedevano dei giudici che, dopo il giudizio,
invitavano i
giusti
a prendere la strada di destra che saliva attraverso il cielo, dopo aver loro
apposto dinanzi i
segni
della sentenza; e gli ingiusti invece a prendere la strada di sinistra, in
discesa. E anche questi
avevano,
ma sul dorso, i segni di tutte le [d] loro azioni passate. Quando si era
avanzato lui, gli
avevano
detto che avrebbe dovuto descrivere agli uomini il mondo dell’aldilà, e che lo
esortavano
ad
ascoltare e contemplare tutto quello che c’era in quel luogo. E lí vedeva le
anime che, dopo avere
sostenuto
il giudizio, se ne andavano per una delle due voragini, sia del cielo sia della
terra;
attraverso
le altre due passavano altre anime: dall’una, sozze e polverose, quelle che
risalivano dalla
terra;
dall’altra, monde, altre che scendevano dal cielo. E [e] quelle che via via
arrivavano
sembravano
venire come da un lungo cammino. Liete raggiungevano il prato per accamparvisi
come
in festiva adunanza. E tutte quelle che si conoscevano si scambiavano
affettuosi saluti: quelle
che
provenivano dalla terra chiedevano alle altre notizie del mondo celeste, quelle
che provenivano
dal
cielo notizie del mondo sotterraneo. Si scambiavano i racconti, le prime
[615 a] gemendo e
piangendo
perché ricordavano tutti i vari patimenti e spettacoli che avevano avuti nel
loro cammino
sotterraneo
(un cammino millenario), mentre le seconde narravano i godimenti celesti e le
visioni di
straordinaria
bellezza. Molto tempo, Glaucone, occorrerebbe per i molti particolari, ma la
sostanza
del
suo racconto era questa: per tutte le ingiustizie commesse e per tutte le
persone offese da
ciascuno,
avevano pagato la pena un caso dopo l’altro, e per ciascun caso dieci volte
tanto (questo
avveniva
ogni [b] cento anni, perché tale è la durata della vita umana). Ciò perché il
castigo subíto
fosse
il decuplo della colpa: perché ad esempio, i responsabili della morte di molte
persone per aver
tradito
città o eserciti, e coloro che molte ne avessero ridotte in schiavitú o fossero
stati complici di
altri
misfatti, per ciascuno di tutti questi delitti riportassero sofferenze decuple;
e, viceversa, perché
coloro
che avessero fatto dei benefíci e fossero stati giusti e pii, fossero premiati
nella [c] medesima
proporzione.
Altro diceva dei morti súbito dopo la nascita e dei vissuti breve tempo, ma
sono cose
che
non merita ricordare. Ancora maggiori, secondo il suo racconto, erano le
mercedi per l’empietà
e
la pietà verso gli dèi e i genitori e per l’omicidio. Asseriva infatti di
essersi appunto trovato
accanto
a uno cui un altro chiedeva dove fosse il grande Ardieo. Questo Ardieo era
stato tiranno in
una
città della Panfilia, mille anni prima, e, come si [d] diceva, aveva ucciso il
vecchio padre e il
fratello
maggiore, e si era macchiato di molte
altre nefandezze. L’interrogato, riferiva Er, aveva
risposto:
“Non viene né potrebbe venir qui”.
2 “Infatti tra gli altri orrendi
spettacoli abbiamo veduto anche questo. Come fummo presso
lo
sbocco, lí lí per risalire e trovandoci ad aver subíto tutte le altre prove,
d’improvviso scorgemmo
lui
e altri, per lo piú tiranni, ma c’era anche
gente privata, colpevole di gravi peccati. Essi [e]
credevano
ormai che sarebbero risaliti, ma lo sbocco non li riceveva, anzi emetteva un
muggito ogni
volta
che uno di questi scellerati inguaribili o uno
che non avesse ancora espiato nella misura
dovuta
tentava di salire”. Lí presso, raccontava, c’erano uomini feroci, tutti fuoco a
vedersi, che
sentendo
quel boato afferravano gli uni a mezzo il corpo e li trascinavano via, ma ad
Ardieo e ad
altri
avevano [616 a] legato mani, piedi e
testa, li avevano gettati a terra e
scorticati, e li
trascinavano
lungo la strada, dalla parte esterna, straziandoli su piante di aspalato. E a
coloro che
via
via sopraggiungevano, spiegavano quali erano
le ragioni di tutto questo aggiungendo che li
conducevano
via per gettarli nel Tartaro. Laggiú, continuava, avevano provato molti terrori
di ogni
genere,
ma tutti li superava la paura che ciascuno aveva di sentire quel boato al
momento di salire.
E
ciascuno era stato molto contento di venir su senza sentirlo. Queste erano
all’incirca le pene e i
castighi
[b] e le corrispondenti ricompense. Quando i singoli gruppi che si trovavano
nel prato vi
avevano
trascorso sette giorni, nell’ottavo dovevano levarsi di lí e mettersi in
cammino, per
giungere
nel quarto giorno in un luogo donde potevano scorgere, tesa dall’alto attraverso tutto il
cielo
e la terra, una luce diritta come una colonna, molto simile all’arcobaleno, ma
piú intensa e piú
pura.
Vi erano arrivati dopo un giorno di marcia e colà avevano veduto, [c] in mezzo
alla luce, tese
dal
cielo, le estremità dei suoi legami. Era questa luce a tenere avvinto il cielo
e, come le gomene
esterne
delle triremi, a tenere insieme tutta la circonferenza. Alle estremità era
sospeso il fuso di
Ananke
[la personificazione del Destino immutabile], per il quale giravano tutte le
sfere. Il suo
fusto
e l’uncino erano di diamante, il
fusaiolo una mescolanza di diamante e di altre materie. Il
fusaiolo
aveva questa natura: [d] per la figura era come quello che si usa in questo
nostro mondo,
ma
il racconto di Er deve far pensare che fosse costruito come se entro un grande
fusaiolo cavo e
interamente
intagliato fosse incastrato un altro consimile, ma piú piccolo, come quei vasi
che
entrano
esattamente l’uno [e] nell’altro; e cosí un terzo, un quarto e altri quattro.
Tutti insieme i
fusaioli
erano otto, incastrati l’uno nell’altro, e
superiormente mostravano i loro orli circolari;
costituivano
il dorso continuo di un unico fusaiolo accentrato sul fusto e il fusto passava
da parte a
parte
l’ottavo fusaiolo lungo l’asse mediano. Il
primo fusaiolo, il piú esterno, aveva il cerchio
dell’orlo
molto largo. Seguivano poi in ordine decrescente il sesto, il quarto, l’ottavo,
il settimo, il
quinto,
il terzo, il secondo. Il cerchio del maggiore era variegato, quello del settimo
lucentissimo,
quello
[617 a] dell’ottavo riceveva il colore dal settimo che lo illuminava, quelli
del secondo e del
quinto
si somigliavano, ma erano piú gialli dei precedenti; il terzo aveva una tinta
bianchissima, il
quarto
rossastra, il sesto veniva al secondo posto per bianchezza. Il fuso ruotava
tutto volgendosi
con
moto uniforme e nel girare dell’insieme i sette cerchi interni giravano lenti
in direzione opposta.
Il
piú rapido era l’ottavo, [b] secondi venivano, tutti insieme, il settimo, il
sesto e il quinto; terzo in
questo
moto rotatorio era, come appariva a quelle anime, il quarto; quarto e quinto
rispettivamente
il
terzo e il secondo. Il fuso si volgeva sulle ginocchia di Ananke. Sull’alto di
ciascuno dei suoi
cerchi
stava una Sirena che, trascinata in quel movimento circolare, emetteva un’unica
nota su un
unico
tono; e tutte otto le note creavano un’unica armonia. Altre tre donne sedevano
in cerchio a [c]
eguali
distanze, ciascuna su un trono: erano le sorelle di Ananke, le Moire, in abiti
bianchi e con
serti
sul capo, Lachesi Cloto Atropo. E cantavano in armonia con le Sirene: Lachesi
il passato,
Cloto
il presente, Atropo il futuro. Cloto a intervalli toccava con la destra il fuso e ne
accompagnava
il giro esterno, cosí come faceva Atropo con la sinistra per [d] i giri interni;
e
Lachesi
con l’una e con l’altra mano toccava ora i giri interni ora quello esterno.Al
loro arrivo, le
anime
dovevano presentarsi a Lachesi. E un araldo divino prima le aveva disposte in
fila, poi aveva
preso
dalle ginocchia di Lachesi le sorti e vari tipi di vita, era salito su un podio
elevato e aveva
detto:
“Parole della vergine Lachesi sorella di
Ananke. Anime dall’effimera esistenza corporea,
incomincia
per voi un altro periodo di generazione mortale, preludio a nuova [e] morte.
Non sarà un
dèmone
a scegliere voi, ma sarete voi a scegliervi il dèmone. Il primo che la sorte
designi scelga per
primo
la vita cui sarà poi irrevocabilmente legato. La virtú non ha padrone; secondo
che la onori o a spregi, ciascuno ne avrà piú o meno. La responsabilità è di
chi sceglie, il dio non è responsabile”.
Con
ciò aveva scagliato al di sopra di tutti i convenuti le sorti e ciascuno
raccoglieva quella che gli
era
caduta vicino, salvo Er, cui non era permesso di farlo. Chi l’aveva raccolta
vedeva chiaramente
il
numero da lui sorteggiato. [618 a] Subito dopo <l’araldo> aveva deposto
per terra davanti a loro i
vari
tipi di vita, in numero molto maggiore dei presenti. Ce n’erano di ogni genere:
vite di
qualunque
animale e anche ogni forma di vita umana. C’erano tra esse tirannidi, quali
durature,
quali
interrotte a metà e concludentisi in povertà, esilio e miseria. C’erano pure
vite di uomini
celebri
o per l’aspetto esteriore, per la bellezza, per il [b] vigore fisico in genere
e per l’attività
agonistica,
o per la nascita e le virtú di antenati; e vite di gente oscura da questi punti
di vista, e cosí
pure
vite di donne. Non c’era però una gerarchia di anime, perché l’anima diventava
necessariamente
diversa a seconda della vita che sceglieva. Il resto era tutto mescolato
insieme:
ricchezza
e povertà o malattie e salute; e c’era anche una forma intermedia tra questi
estremi. Lí,
come
sembra, caro Glaucone, appare tutto il pericolo per l’uomo; e per questo
ciascuno [c] di noi
deve
stare estremamente attento a cercare e ad apprendere questa disciplina senza
curarsi delle altre,
vedendo
se riesce ad apprendere questa disciplina senza curarsi delle altre, vedendo se
riesce ad
apprendere
e a scoprire chi potrà comunicargli la capacità e la scienza di discernere la
vita onesta e
la
vita trista e di scegliere sempre e dovunque la migliore di quelle che gli sono
possibili: ossia,
calcolando
quali effetti hanno sulla virtú della vita tutte le cose che ora abbiamo dette,
considerate
insieme
o separatamente, sapere che cosa produca la bellezza mescolata a povertà [d] o
ricchezza,
se
cioè un male o un bene, e quale condizione dell’anima a ciò concorra, e quale
effetto producano
con
la loro reciproca mescolanza la nascita nobile e ignobile, la vita privata e i
pubblici uffici, la
forza
e la debolezza, la facilità e la difficoltà d’apprendere, e ogni altra simile
qualità connaturata
all’anima
o successivamente acquisita. Cosí, tirando le conclusioni di tutto questo, egli
potrà,
guardando
la natura dell’anima, scegliere una vita peggiore [e] o una vita migliore,
chiamando
peggiore
quella che la condurrà a farsi piú ingiusta, migliore quella che la condurrà a
farsi piú
giusta.
E tutto il resto lo lascerà perdere. Abbiamo veduto che è questa la scelta
migliore, da vivo
[619 a] come da morto. Con questa adamantina
opinione egli deve scendere nell’Ade, per non
lasciarsi
neppure lí impressionare dalle ricchezze e da simili mali, per non gettarsi
sulle tirannidi e
altre
condotte del genere e quindi commettere molti insanabili mali, e per non
patirne lui stesso di
ancora
maggiori; ma per sapere sempre scegliere tra cotali vite quella mediana e
fuggire gli eccessi
nell’uno
e nell’altro senso, sia, per quanto è possibile, in questa nostra vita, sia in
tutta la vita futura.
Cosí
l’uomo può raggiungere [b] il colmo della felicità.
3 In quel momento, dunque,
secondo quanto narrava il nunzio
che veniva di là, l’araldo
divino
aveva parlato cosí: “Anche chi si presenta ultimo, purché scelga con senno e viva
con regola,
può
disporre di una vita amabile, non cattiva. Il primo cerchi di scegliere con
cura e l’ultimo non si
scoraggi”.
A queste parole, raccontava Er, colui che aveva avuto la prima sorte si era
subito
avanzato
e aveva scelto la maggiore tirannide. A questa scelta era stato spinto
dall’insensatezza e
dall’ingordigia,
senza averne [c] abbastanza valutato tutte le conseguenze. E cosí non s’era
accorto
che
il fato racchiuso in quella scelta gli riservava la sorte di divorarsi i figli,
e altri mali. Quando
l’aveva
esaminata a suo agio, si percoteva e si lamentava della scelta, senza tenere
presenti le
avvertenze
dell’araldo divino. Non già incolpava se stesso dei mali, ma la sorte e i
dèmoni, tutto
insomma
eccetto sé. Egli apparteneva al gruppo che
veniva dal cielo e nella vita precedente era
vissuto
in un [d]8 regime ben ordinato, ma aveva acquistato virtú per abitudine, senza
filosofia. E
per
quanto se ne poteva dire, tra coloro che si lasciavano sorprendere in simili
imprudenze non
erano
i meno quelli che venivano dal cielo: perché erano inesperti di sofferenze.
Invece coloro che
venivano
dalla terra, per lo piú non operavano le loro scelte a precipizio: perché
avevano essi stessi
sofferto
o veduto altri soffrire. Anche per questo, oltre che per la fortuna nel
sorteggio, la maggior
parte
delle anime permutava mali con beni e beni con mali. Perché se uno, quando
arriva a questa
nostra
vita, pratica sempre sana filosofia, e se nel momento [e] della scelta la sorte
non gli cade tra
le
ultime, ha buone probabilità, secondo le notizie di lí riferite, non solo di
essere felice in questo mondo, ma anche di compiere il viaggio da qui a lí e da
lí a qui non per una strada sotterranea e
aspra,
ma liscia e celeste. Meritava poi vedere, diceva, come le singole anime
sceglievano le loro
vite.
[620 a] Spettacolo insieme miserevole,
ridicolo e meraviglioso! La maggioranza sceglieva
secondo
le abitudini contratte nella vita precedente. Diceva d’avere veduto l’anima che
era stata un
tempo
di Orfeo intenta a scegliere la vita di un cigno: non voleva nascere da grembo
di donna per
l’odio
che nutriva verso il sesso femminile che aveva cagionato la sua morte
[disperato per non
essere
riuscito a riportare dall’Ade alla vita terrena la sposa Euridice, orfeo vagava
per le montagne
della
Tracia sfogando il suo dolore, quando, imbattutosi in uno stuolo di Baccanti,
ne venne
selvaggiamente
dilaniato]; e l’anima di Tamiri [fu il primo dei cantori di corte; narrava la
leggenda
che,
insuperbitosi per la propria bravura, volle gareggiare con le Muse e ne fu
accecato per
punizione]
scegliere la vita di un usignolo. Aveva visto anche un cigno che con la sua
scelta mutava
la
propria vita in quella umana, e cosí pure [b] altri animali canori. L’anima che
era stata designata
ventesima
dalla sorte aveva scelto la vita di un leone: era quella di Aiace Telamonio,
che rifuggiva
dal
diventare uomo ricordandosi del giudizio relativo alle armi [si tratta della
contesa per le armi di
Achille
aggiudicate a Odisseo anziché ad Aiace che se ne riteneva piú meritevole; di
qui la ragione
del
corruccio dell’ombra di Aiace quando Odisseo scende nell’Ade (Odissea, XI,
543-565)]. Dopo
di
lui veniva quella di Agamennone: anche questa, per ostilità verso il genere
umano dovuta alle
sofferenze
patite, aveva scambiato la sua vita con quella di un’aquila. Posta dalla sorte
nel gruppo di
mezzo,
l’anima di Atalanta, come aveva scorto
grandi onori riservati a un
atleta, non era stata
capace
di passare oltre e li aveva [c] raccolti [Atalanta, celebre per la velocità
nella corsa, fu vinta
tuttavia
da Ippomene che durante la gara le gettò magnifiche mele che ella si fermò a
raccogliere].
Dopo
di lei, aveva visto l’anima di Epeo, figlio di Panopeo [Epeo fu un pugile che
partecipò alla
guerra
di Troia; Omero ne ricorda l’incontro avventuroso con Eurialo (Iliade, XXIII,
664-700) e la
costruzione
del famoso cavallo di legno sotto la guida di Atena (Odissea, VIII, 492 e
segg.; XI,
523)],
assumere la natura di una donna operaia; lontano, tra gli ultimi, quella del
buffone Tersite
penetrare
in una scimmia [Tersite è il popolano guercio, zoppo e gobbo che vomita
ingiurie contro i
comandanti
greci e propone la ritirata da Troia dell’esercito acheo, finché Odisseo non lo
riduce al
silenzio
bastonandolo con lo scettro (Iliade, II, 212-277)]. S’era avanzata poi a
scegliere l’anima di
Odísseo,
cui il caso aveva riservato l’ultima sorte: ridotta senza ambizioni dal ricordo
dei precedenti
travagli,
se n’era andata a lungo in giro cercando
la vita di un privato individuo schivo
di ogni
seccatura.
E non senza pena l’aveva [d] trovata, gettata in un canto e negletta dalle
altre anime; e al
vederla
aveva detto che si sarebbe comportata nel medesimo modo anche se la sorte
l’avesse
designata
per prima; e se l’era presa tutta contenta. E nello stesso modo passavano dalle
altre bestie
in
uomini e dalle une nelle altre: le ingiuste si trasformavano in quelle
selvagge, le giuste in quelle
mansuete.
Si facevano mescolanze di ogni genere. Dopoché tutte le anime avevano scelto le
rispettive
vite, si presentavano a Lachesi nell’ordine stabilito dalla sorte. A ciascuno
ella dava come
compagno
il dèmone che quegli s’era preso, perché
gli fosse guardiano durante la [e] vita e
adempisse
il destino da lui scelto. Ed esso guidava l’anima anzitutto da Cloto, a
confermare, sotto la
sua
mano e sotto il giro del fuso, il destino che s’era scelta dopo il sorteggio.
Poi toccava questo e
quindi
la conduceva alla trama tessuta da Atropo rendendo inalterabile il destino una
volta filato. Di
lí
senza volgersi <ciascuno> si recava sotto [621 a] il trono di Ananke e
gli passava dall’altra parte.
Dopoché
anche gli altri erano passati, tutti si dirigevano verso la pianura del Lete in
una tremenda
calura
e afa. Era una pianura priva d’alberi e di qualunque prodotto della terra. Al
calare della sera,
essi
si accampavano sulla sponda del fiume Amelete, la cui acqua non può essere
contenuta da vaso
alcuno.
E tutti erano obbligati a berne una certa misura, ma chi non era frenato
dall’intelligenza ne
beveva
[b] di piú della misura. Via via che uno beveva, si scordava di tutto. Poi
s’erano
addormentati,
quando, a mezzanotte, era scoppiato un
tuono e s’era prodotto un terremoto: e
d’improvviso,
chi di qua, chi di là, eccoli portati in su a nascere, ratti filando come
stelle cadenti.
Lui,
Er, aveva ricevuto divieto di bere quell’acqua. Per dove e come avesse
raggiunto il suo corpo
non
sapeva. Sapeva soltanto che d’un tratto aveva aperto gli occhi e s’era veduto
all’alba giacere
sulla
pira. E cosí, Glaucone, s’è salvato il mito e non è [c] andato perduto. E potrà
salvare anche noi, se gli crediamo; e noi attraverseremo bene il fiume Lete e
non insozzeremo l’anima nostra. Se
mi
darete ascolto e penserete che l’anima è immortale, che può soffrire ogni male
e godere ogni
bene,
sempre ci terremo alla via che porta in alto e coltiveremo in ogni modo la
giustizia insieme
con
l’intelligenza, per essere amici a noi stessi e agli dèi, sia finché [d]
resteremo qui, sia quando
riporteremo
i premi della giustizia, come chi vince nei giochi raccoglie in giro il suo
premio; e per
vivere
felici in questo mondo e nel millenario cammino che abbiamo descritto.
MITO DELLA BIGA ALATA
Fedro,
246 a-249d
1 [246 a] [...] Dell’immortalità dell’anima
s’è parlato abbastanza, ma quanto alla sua natura c’è
questo
che dobbiamo dire: definire quale essa sia, sarebbe una trattazione che
assolutamente solo un
dio
potrebbe fare e anche lunga, ma parlarne secondo immagini è impresa umana e piú breve.
Questo
sia dunque il modo del nostro discorso. Si raffiguri l’anima come la potenza
d’insieme di
una
pariglia alata e di un auriga. Ora tutti i corsieri degli dèi e i loro aurighi
[b] sono buoni e di
buona
razza, ma quelli degli altri esseri sono un po’ sí e un po’ no. Innanzitutto,
per noi uomini,
l’auriga
conduce la pariglia; poi dei due corsieri uno è nobile e buono, e di buona
razza, mentre
l’altro
è tutto il contrario ed è di razza opposta. Di qui consegue che, nel nostro
caso, il compito di
tal
guida è davvero difficile e penoso. Ed ora bisogna spiegare come gli esseri
viventi siano
chiamati
mortali e immortali. Tutto ciò che è anima si prende cura di ciò che è
inanimato, e penetra
per
l’intero universo assumendo secondo i luoghi forme [c] sempre differenti. Cosí,
quando sia
perfetta
ed alata, l’anima spazia nell’alto e governa il mondo; ma quando un’anima perde
le ali, essa
precipita
fino a che non s’appiglia a qualcosa di solido, dove si accasa, e assume un
corpo di terra
che
sembra si muova da solo, per merito della potenza dell’anima. Questa composita
struttura
d’anima
e di corpo fu chiamata essere vivente, e poi definita mortale. La definizione
di immortale
invece
non è data da alcun argomento razionale; però noi ci preformiamo il dio, [d]
senza averlo
mai
visto né pienamente compreso, come un certo essere immortale completo di anima
e di corpo
eternamente
connessi in un’unica natura. Ma qui giunti, si pensi di tali questioni e se ne
parli come
è
gradimento del dio. Noi veniamo a esaminare il perché della caduta delle ali
ond’esse si staccano
dall’anima.
Ed è press’a poco in questo modo.
2 La funzione naturale dell’ala è di
sollevare ciò che è peso e di innalzarlo
là dove dimora la
comunità
degli dèi; e in qualche modo essa partecipa del divino piú delle altre cose che hanno
attinenza
con il corpo. Il divino è [e] bellezza, sapienza, bontà ed ogni altra virtú
affine. Ora,
proprio
di queste cose si nutre e si arricchisce
l’ala dell’anima, mentre dalla turpitudine, dalla
malvagità
e da altri vizi, si corrompe e si perde. Ed eccoti Zeus, il potente sovrano del
cielo,
guidando
la pariglia alata, per primo procede, ed ordina ogni cosa provvedendo a tutto.
A lui vien
dietro
l’esercito degli dèi e dei demoni ordinato in undici [267 a] schiere: Estia
rimane sola nella
casa
degli dèi. Quanto agli altri, tutti gli dèi, che nel numero di dodici sono
stati designati come
capi,
conducono le loro schiere, ciascuno quella alla quale è stato assegnato. Varie
e venerabili sono
le
visioni e le evoluzioni che la felice comunità degli dèi disegna nel cielo con
l’adempiere ognuno
di
essi il loro compito. Con loro vanno solo quelli che lo vogliono e che possono,
perché l’Invidia
non
ha posto nel coro divino. Ma, eccoti, quando si recano ai loro banchetti e
festini, salgono [b] per
l’erta
che mena alla sommità della volta celeste; ed è agevole ascesa perché per le
pariglie degli dèi
sono
bene equilibrate e i corsieri docili alle redini; mentre per gli altri l’ascesa
è faticosa, perché il
cavallo
maligno fa peso, e tira verso terra premendo l’auriga che non l’abbia bene
addestrato. Qui si
prepara
la grande fatica e la prova suprema dell’anima. Perché le anime che sono
chiamate
immortali,
quando sian giunte al sommo della volta celeste, si spandono fuori e si librano
sopra il
dorso
del cielo: e l’orbitare del cielo le trae attorno, cosí librate, ed esse [c]
contemplano quanto sta
fuori
del cielo.
3 Questo sopraceleste sito nessuno dei poeti
di quaggiú ha cantato, né mai canterà degnamente.
Ma
questo ne è il modo, perché bisogna pure avere il coraggio di dire la verità
soprattutto quando il
discorso
riguarda la verità stessa. In questo sito dimora quella essenza incolore,
informe ed
intangibile,
contemplabile solo dall’intelletto, pilota dell’anima, quella essenza che è
scaturigine
della
[d] vera scienza. Ora il pensiero divino è nutrito d’intelligenza e di pura
scienza, cosí anche il pensiero di ogni altra anima cui prema di attingere ciò
che le è proprio; per cui, quando finalmente
esso
mira l’essere, ne gode, e contemplando la verità si nutre e sta bene, fino a
che la rivoluzione
circolare
non riconduca l’anima al medesimo punto. Durante questo periplo essa contempla
la
giustizia
in sé, vede la temperanza, e contempla
la scienza, ma non quella [e] che è legata al
divenire,
né quella che varia nei diversi enti che noi chiamiamo esseri, ma quella
scienza che è
nell’essere
che veramente è. E quando essa ha contemplato del pari gli altri veri esseri e
se ne è
cibata,
s’immerge di nuovo nel mezzo del cielo e scende a casa: ed essendo cosí giunta,
il suo
auriga
riconduce i cavalli alla greppia e li governa con ambrosia e in piú li abbevera
di nettare.
4 [248 a] Questa è la vita degli dèi. Ma fra
le altre anime, quella che meglio sia riuscita a tenersi
stretta
alle orme di un dio e ad assomigliarvi, eleva il capo del suo auriga nella
regione superceleste,
ed
è trascinata intorno con gli dèi nel giro di rivoluzione; ma essendo
travagliata dai suoi corsieri,
contempla
a fatica le realtà che sono. Ma un’altra anima ora eleva il capo ora lo
abbassa, e subendo
la
violenza dei corsieri parte di quelle realtà vede, ma parte no. Ed eccoti,
seguono le altre tutte
agognanti
quell’altezza, ma poiché non ne hanno la forza, sommerse, sono spinte qua e là
e
cadendosi
addosso si calpestano a vicenda nello sforzo di sopravanzarsi l’un l’atra. Ne
conseguono
[b]
scompiglio, risse ed estenuanti fatiche, e per l’inettitudine dell’auriga molte
rimangono sciancate
e
molte ne hanno infrante le ali. Tutte poi, stremate dallo sforzo, se ne
dipartono senza aver goduto
la
visione dell’essere e, come se ne sono allontanate, si cibano dell’opinione. La
vera ragione per
cui
le anime si affannano tanto per scoprire dove sia la Pianura della Verità è che
lí in quel prato si
trova
il pascolo congeniale alla parte
migliore dell’anima [c] e che di questo si nutre la natura
dell’ala,
onde l’anima può alzarsi. Ed ecco la legge di Adrastea. Qualunque anima,
trovandosi a
seguito
di un dio, abbia contemplato qualche verità, fino al prossimo periplo rimane
intocca da
dolori,
e se sarà in grado di far sempre lo stesso, rimarrà immune da mali. Ma quando
l’anima,
impotente
a seguire questo volo, non scopra nulla della verità, quando, in conseguenza di
qualche
disgrazia,
divenuta gravida di smemoratezza e di vizio, si appesantisca, e per colpa di
questo peso
perda
le ali e precipiti a terra, allora la legge vuole che questa anima non si
trapianti in alcuna natura
ferina
[d] durante la prima generazione; ma prescrive che quella fra le anime che piú
abbia veduto si
trapianti
in un seme d’uomo destinato a divenire un ricercatore della sapienza e del
bello o un
musico,
o un esperto d’amore; che l’anima, seconda alla prima nella visione dell’essere
s’incarni in
un
re rispettoso della legge, esperto di guerra e capace di buon governo; che la
terza si trapianti in
un
uomo di stato, o in un esperto d’affari o di finanze; che la quarta scenda in
un atleta incline alle
fatiche,
o in un medico; che la [e] quinta abbia una vita da indovino o da iniziato; che
alla sesta le si
adatti
un poeta o un altro artista d’arti imitative, alla settima un operaio o un
contadino, all’ottava
un
sofista o un demagogo, e alla nona un tiranno.
5 Ora, fra tutti costoro, chi abbia vissuto
con giustizia riceve in cambio una sorte migliore e chi
senza
giustizia, una sorte peggiore. Ché ciascuna anima non ritorna al luogo stesso
da cui era partita
prima
di diecimila anni – giacché non mette ali in un tempo minore – tranne [249 a] l’anima
di chi
ha
perseguito con convinzione la sapienza, o di chi ha amato i giovani secondo
quella sapienza. Tali
anime,
se durante tre periodi di un millennio hanno scelto, sempre di seguito, questa
vita filosofica,
riacquistano
per conseguenza le ali e se ne dipartono al termine del terzo millennio. Ma le
altre,
quando
abbiano compiuto la loro prima vita, vengono a giudizio, e dopo il giudizio,
alcune scontano
la
pena nelle prigioni sotterranee, altre, alzate dalla Giustizia in qualche sito
celeste, ci vivono cosí
come
hanno meritato dalla loro vita, passata in forma umana. [b] Allo scadere del
millennio,
entrambe
le schiere giungono al sorteggio e alla scelta della seconda vita; ciascuna
anima sceglie
secondo
il proprio volere: è qui che un’anima può passare in una vita ferina e l’anima
di una bestia
che
una volta sia stata in un uomo può ritornare in un uomo. Giacché l’anima che
non abbia mai
visto
la verità non giungerà mai a questa nostra forma. Perché bisogna che l’uomo
comprenda ciò
che
si chiama Idea, passando da una molteplicità
di sensazioni ad una unità organizzata dal [c]
ragionamento.
Questa comprensione è reminiscenza delle
verità che una volta l’anima nostra ha veduto, quando trasvolava al seguito
d’un dio, e dall’alto piegava gli occhi verso quelle cose che ora
chiamiamo
esistenti, e levava il capo verso ciò che veramente è. Proprio per questo è
giusto che
solo
il pensiero del filosofo sia alato, perché per quanto gli è possibile sempre è
fisso sul ricordo di
quegli
oggetti, per la cui contemplazione la divinità è divina. Cosí se un uomo usa
giustamente tali
ricordi
e si inizia di continuo ai perfetti misteri, diviene, egli solo, veramente
perfetto; e [d] poiché
si
allontana dalle faccende umane, e si svolge al divino, è accusato dal volgo di
essere fuori di sé,
ma
il volgo non sa che egli è posseduto dalla divinità. [...]
MITO DELLA CAVERNA
Repubblica,
514 a-517 a
1 [514 a] – In séguito, continuai, paragona
la nostra natura, per ciò che riguarda educazione e
mancanza
di educazione, a un’immagine come questa. Dentro una dimora sotterranea a forma
di
caverna,
con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di
vedere
degli uomini che vi stiano dentro fin da
fanciulli, incatenati gambe e collo, sí da dover
restare
fermi e da [b] poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena,
di volgere
attorno
il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il
fuoco e i prigionieri
corra
rialzata una strada. Lungo questa pensa di
vedere costruito un muricciolo, come quegli
schermi
che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi
i burattini. –
Vedo,
rispose. – Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti
[c] di ogni
sorta
sporgenti dal margine, e statue e altre [515 a] figure di pietra e di legno, in
qualunque modo
lavorate;
e, come è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono. – Strana immagine
è la tua,
disse,
e strani sono quei prigionieri. – Somigliano
a noi, risposi; credi che tali persone possano
vedere,
anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco
sulla parete della
caverna
che sta loro di fronte? – E come possono, replicò, se sono costretti a tenere
immobile il [b]
capo
per tutta la vita? – E per gli oggetti trasportati non è lo stesso? –
Sicuramente. – Se quei
prigionieri
potessero conversare tra loro, non credi
che penserebbero di chiamare oggetti reali le
loro
visioni? – Per forza. – E se la prigione avesse pure un’eco dalla parete di
fronte? Ogni volta che
uno
dei passanti facesse sentire la sua voce, credi che la giudicherebbero diversa
da quella
dell’ombra
che passa? – Io no, per Zeus!, [c] rispose. – Per tali persone insomma, feci
io, la verità
non
può essere altro che le ombre degli
oggetti artificiali. – Per forza, ammise. – Esamina ora,
ripresi,
come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire dall’incoscienza. Ammetti
che capitasse
loro
naturalmente un caso come questo: che uno fosse sciolto, costretto
improvvisamente ad alzarsi,
a
girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce; e che cosí
facendo provasse
dolore
e il barbaglio lo rendesse incapace di [d] scorgere quegli oggetti di cui prima vedeva le ombre. Che cosa credi
che risponderebbe, se gli si dicesse che prima vedeva vacuità prive di senso,
ma
che ora, essendo piú vicino a ciò che è ed essendo rivolto verso oggetti aventi
piú essere, può
vedere
meglio? e se, mostrandogli anche ciascuno degli oggetti che passano, gli si
domandasse e lo
si
costringesse a rispondere che cosa è? Non
credi che rimarrebbe dubbioso e giudicherebbe piú
vere
le cose che vedeva prima di quelle che gli fossero mostrate adesso? – Certo,
rispose.
2 [e] – E se lo si costringesse a guardare la luce stessa, non sentirebbe
male agli occhi e non
fuggirebbe
volgendosi verso gli oggetti di cui può sostenere la vista? e non li giudicherebbe
realmente
piú chiari di quelli che gli fossero mostrati? – È cosí, rispose. – Se poi, continuai,
lo si
trascinasse
via di lí a forza, su per l’ascesa scabra ed erta, e non lo si lasciasse prima
di averlo tratto
alla
luce del sole, non ne soffrirebbe e non s’irriterebbe [516 a] di essere
trascinato? E, giunto alla
luce,
essendo i suoi occhi abbagliati, non potrebbe vedere nemmeno una delle cose che
ora sono
dette
vere. – Non potrebbe, certo, rispose, almeno all’improvviso. – Dovrebbe, credo,
abituarvisi, se
vuole
vedere il mondo superiore. E prima osserverà, molto facilmente, le ombre e poi
le immagini
degli
esseri umani e degli altri oggetti nei loro riflessi nell’acqua, e infine gli
oggetti stessi; da
questi
poi, volgendo lo sguardo alla luce delle stelle e della luna, [b] potrà
contemplare di notte i
corpi
celesti e il cielo stesso piú facilmente che durante il giorno il sole e la
luce del sole. – Come
no?
– Alla fine, credo, potrà osservare e contemplare quale è veramente il sole,
non le sue immagini
nelle
acque o su altra superficie, ma il sole in se stesso, nella regione che gli è
propria. – Per forza,
disse.
– Dopo di che, parlando del sole, potrebbe già concludere che è esso a produrre
le stagioni e
gli
anni e a governare tutte le cose del mondo visibile, e ad essere [c] causa, in
certo modo, di tutto
quello
che egli e i suoi compagni vedevano. – È
chiaro, rispose, che con simili esperienze
concluderà
cosí. – E ricordandosi della sua prima dimora e della sapienza che aveva colà e
di quei
suoi
compagni di prigionia, non credi che si sentirebbe felice del mutamento e
proverebbe pietà per
loro?
– Certo. – Quanto agli onori ed elogi
che eventualmente si scambiavano allora, e ai primi
riservati
a chi fosse piú acuto nell’osservare gli oggetti che passavano e piú [d]
rammentasse quanti
ne
solevano sfilare prima e poi e insieme,
indovinandone perciò il successivo, credi che li
ambirebbe
e che invidierebbe quelli che tra i prigionieri avessero onori e potenza? o che
si
troverebbe
nella condizione detta da Omero e preferirebbe “altrui per salario servir da
contadino,
uomo
sia pur senza sostanza”, e patire di tutto piuttosto che avere quelle opinioni
e vivere in quel
modo?
– Cosí penso anch’io, rispose; [e] accetterebbe di patire di tutto piuttosto
che vivere in quel
modo.
– Rifletti ora anche su quest’altro punto, feci io. Se il nostro uomo
ridiscendesse e si
rimettesse
a sedere sul medesimo sedile, non
avrebbe gli occhi pieni di tenebra, venendo
all’improvviso
dal sole? – Sí, certo, rispose. – E se dovesse discernere nuovamente quelle
ombre e
contendere
con coloro che sono rimasti sempre prigionieri, nel periodo in cui ha la vista
offuscata,
prima
[517 a] che gli occhi tornino allo stato normale? e se questo periodo in cui
rifà l’abitudine
fosse
piuttosto lungo? Non sarebbe egli allora oggetto di riso? e non si direbbe di
lui che dalla sua
ascesa
torna con gli occhi rovinati e che non vale
neppure la pena di tentare di andar su? E chi
prendesse
a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero,
se potessero
averlo
tra le mani e ammazzarlo? – Certamente, rispose. [...]
Nessun commento:
Posta un commento