BAROCCO
Il ‘600 è il secolo di ciò
che propriamente viene chiamato Barocco.
In questo periodo la
letteratura italiana risente della mancanza di un “genio”, ritrovandosi assai
povera, vuoto che però ha permesso il fiorire di altri due campi: la musica e
la scienza moderna. È su quest’ultima che soprattutto ci soffermiamo perché è
proprio essa a dare una svolta decisiva alla storia, perché conferisce a tutti
gli aspetti della vita dell’uomo i suoi tratti caratteristici che la
costituiscono: l’osservazione della realtà così com’è, l’attaccamento all’esperienza
e ai sensi, la ricerca della verità e di una certezza oggettiva. Infatti,
questi sono gli anni del grande filosofo francese René Descartes (Cartesio),
che ha dedicato tutta il suo impegno alla ricerca di una certezza assolutamente
valida che potesse essere base salda su cui costruire la vita umana. Ma non è
solo Cartesio a riflettere su qual è la vera realtà, su che cosa può fare
affidamento l’uomo, su che cosa non inganna l’uomo; Calderòn de la Barca lo
mette a tema nella sua opera teatrale La vita è sogno. Sigismondo è il
figlio del re di ?? Basilio, anche se facciamo fatica a dargli l’appellativo di
“padre”. Infatti ha concepito il figlio pur consapevole della predizione di un
oracolo: il figlio, in età adulta, lo avrebbe spodestato dal trono. Come
succede anche in molti episodi delle tragedie greche, in particolare ad Edipo,
l’uomo cerca di sfuggire al suo destino funesto attraverso intrighi e
scappatoie, per poi scoprire alla fine che tutti i suoi sforzi hanno permesso
proprio ciò che lui voleva evitare.
Chi pensa di prevenire
il danno prima che avvenga
non lo schiva né si salva;
I genitori regali avevano
avuto sinistri presagi dal cielo, che il re astrologo aveva potuto leggere
accuratamente; esso rappresenta lo scienziato per la società del tempo, colui
che studia le regole che governano le cose. Alla nascita del figlio, lo
rinchiude in una torre isolata, dispersa tra le rocce e i dirupi, “dove la
luce entra appena” e come unico compagno gli affida il servo fedele
Clotaldo. Il giovane cresce senza vedere null’altro del mondo che la sua
prigione, senza sapere chi è veramente, senza risposte ma con mille domande.
Basilio però è curioso: vuole vedere se Sigismondo sarebbe stato virtuoso comunque,
vuole mettere alla prova il figlio, convinto che la libertà dell’uomo si può
opporre alla sua naturale inclinazione al male, ma vuole restare comunque in
sicurezza. Come dice il detto: fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio. Allora
quando è addormentato lo fa trasportare al castello, e il giovane si risveglia
in un altro mondo: oro, merletti, sale spaziose, velluto rosso, pietanze
inimmaginabili, e lui è padrone di tutto questo e anche di più; lui è il
principe che erediterà un mondo inimmaginabile, più grande di qual che si
pensava. Questa scoperta è la stessa che la scienza ha permesso di fare
all’uomo del Barocco. Sogno o son desto? È questa la domanda che accompagnerà
il protagonista da qui in avanti, domanda a cui però Calderòn non darà
risposta. Questo mondo nuovo, e soprattutto l’inaspettato potere su di esso che
Sigismondo si ritrova addosso, lo convincono che è padrone di tutto, e che può
fare quel che vuole con la libertà acquistata; libertà che però sfrutta male,
che sfocia in violenza ingiustificata, in tirannia. Scopre l’inganno del padre,
e lo odia, e vuole giustizia. Basilio si difende insinuando in lui il dubbio
che tutto sia un sogno:
BASILIO: […]
Serbati umile e mite
perché forse stai sognando
anche se sveglio ti credi.
SIGISMONDO:
Può darsi che stia
sognando,
anche se mi sento sveglio?
Non sogno, ma tocco e
credo
quel che ero e quel che
sono.
Tutto è mio, e sono libero di
fare ciò che voglio, quindi divertiamoci e spadroneggiamo finché il sogno dura.
Così si rivolge ad una fanciulla, Rosaura, arrivata a corte da poco come
supplice, che gli chiede licenza per poter ritirarsi nella sua camera, che lui
nega:
ROSAURA:
Ma se me la neghi, dovrò
prendermela.
SIGISMONDO:
E da cortese mi farò
sgarbato,
perché ogni impedimento
versa veleno sulla mia
pazienza.
ROSAURA:
Anche se questo veleno,
pieno di furia, d’ira e di
rancore
la tua pazienza vincesse,
nulla potrà contro l’onore
mio.
SIGISMONDO:
fosse solo per provarlo,
della tua grazia perderò
il rispetto,
perché l’animo mi spinge
verso l’impossibile. Dal
balcone
oggi ho buttato un uomo
che diceva
che quell’atto era
vietato;
dunque, solo per vedere se
posso,
dalla finestra getterò il
tuo onore.
E a Clotaldo, che interviene:
CLOTALDO:
Son giunto al richiamo di
queste voci,
per pregarti di essere
più mite, se a regnare tu
aspiri,
e, stando sopra tutti, di
cessare
ogni asprezza,perché forse
è un sogno.
SIGISMONDO:
Tu provochi la mia rabbia
Quando baleni il dubbio
dell’errore.
Se è realtà o sogno
Lo saprò uccidendoti.
Ma in questa vertiginosa
libertà, non c’è traccia di felicità vera. L’uomo è allo sbaraglio, sbattuto
tra il fato degli antichi e libero arbitrio, che essi non conoscevano. Ecco
che, tra la tempesta del mondo, si leva il grido di disperazione di Rosaura,
che riecheggia quello dei tragediografi greci:
Dio m’aiuti!
[…]
Ci sarà persona al mondo
A cui il cielo spietato
Tormenti con più sciagure
E investa con più dolori?
Che fare di tanto
scompiglio
Da cui non posso trarre
Un consiglio che m’aiuti
O un aiuto che mi salvi?
[…]
Giunga ala limite la pena,
ed esca io finalmente
da dubbi e da rovelli.
Ma fino a quel punto,
cieli,
datemi, datemi aiuto!
Ecco la preghiera che
riaffiora da un cuore sofferente, che non capisce il senso di questo dolore con
cui l’uomo deve sempre fare i conti. Rosaura, nella sua disperazione, arriva
addirittura a desiderare di essere nata pagana, perché avrebbe potuto dare la
colpa agli dei e alla sorte del male del mondo. Con l’avvento del cristianesimo
infatti la sofferenza diventa ancora più nera, perché non è salvata neanche la
grandezza degli uomini, che diventano peccatori.
Mi spiace non esser nata
Pagana, per illudermi,
pazza, fosse un dio di
quelli
che, mutati in pioggia
d’oro,
in cigno e in toro,
piansero
Danae, Leda ed Europa.
L’uomo non capisce più dove
rigirarsi, confuso su cosa sia realtà o su cosa sia sogno, si ritrova in mano
illusioni infrante:
SIGISMONDO:
Ancora una volta, cielo!,
vuoi che sogni grandezze,
che poi demolisce il
tempo?
Ma, forse più debolmente che
in Tasso, anche nella sofferenza c’è un ultimo rimando a Dio, come una luce
fioca di speranza.
SIGISMONDO (tra sé)
(Cieli, s’è vero che
sogno,
fermate la mia memoria:
è assurdo che tante cose
stiano dentro a un solo
sogno.
Dio m’aiuti!
Lo stesso titolo dell’opera, La
vita è sogno, non è un messaggio nichilista, non è un invito ad
abbandonarsi al nulla perché in realtà nulla esiste; fa riflettere invece sul
fatto che la vita terrena è un sogno, un’illusione passeggera e finita della
vita vera, che viene dopo la morte, infinita. È un invito ad usare la propria
libertà per un bene, perché, se la vita è un sogno, non facciamo cose di cui
potremmo pentirci al risveglio. Ecco la conclusione a cui arriva anche
Sigismondo:
Così lieve è la distanza
Tra loro (tra sogno e realtà) da non sapere
Se ciò che si vede e gode
È cosa finta o reale?
Tanto rassomigliante
appare
La copia dall’originale
Che sempre permane il
dubbio?
Ma se è così dobbiamo
veder svanire nell’ombra
la grandezza ed il potere,
la maestà e lo splendore,
cerchiamo dia attingere
all’attimo che ci sfiora,
perché il vero godimento
è solo quello dei sogni.
Ed ecco la conclusione
dell’opera:
Ho appreso proprio questo:
la felicità umana
scorre e passa come un
sogno.
E oggi voglio cogliere
Quell’istante per
chiedervi
Perdono dei nostri errori,
visto che a nobili cuori
ben s’addice il perdono.
Allora gli uomini, coscienti
di vivere in un mondo effimero come un sogno, devono imparare ad usare bene la
propria libertà, e non serbare rancore davanti a qualcosa di pur ingiusto,
davanti all’errore degli altri uomini e al proprio peccato, ma perdoniamo,
usiamo di misericordia tra di noi come fa Dio. Solo grazie al cristianesimo
Sigismondo poteva amare ancora suo padre, e non usare la giustizia umana, tanto
esaltata dai Greci perché migliore di quella degli dei malvagi.
C’è un altro aspetto che la
letteratura ha assunto dalla struttura scientifica: lo stupore conseguente
all’osservazione. Lo scopo della letteratura diventa infatti destare
meraviglia, e tutto l’impegno dell’autore è rivolto verso l’incremento di
sempre nuovi metodi per stupire il suo pubblico, di un’arguzia sempre maggiore.
La ricerca ed il gusto per l’inaspettato e l’ammirazione fanno prediligere lo
strumento retorico della metafora, la figura che eccelle per la sua infinita
potenzialità: si voleva colpire il lettore trovando accostamenti inaspettati,
paragoni geniali. Così scrive Tesauro parlando appunto di questa figura
retorica:
Ed eccoci alla fin
pervenuti grado per grado al più alto delle figure ingegnse, a paragon delle
quali tutte le altre figure fin qui recitate perdon il pregio, essendo la
metafora il più ingegnoso e acuto, il più pellegrino e mirabile, il più
gioviale e giovevole, il più facondo e fecondo parto dell’umano intelletto. Ingegnosissimo
veramente, però che (poiché), se
l’ingegno consiste (come dicemmo) nel ligare insieme le remote e separate
nozioni degli propositi obietti, questo apunto è l’officio della metafora, e
non alcun altra figura:[…]
L’importanza data
all’osservazione fa inoltre aprire gli orizzonti ai letterati, che iniziano a
dare peso a quegli aspetti della realtà precedentemente ignorati o addirittura
eliminati, come ciò che era considerato “brutto”. L’uomo si stacca quindi
dall’ossessione per ciò che solo è bello, perché intravede anche nello scarto
qualcosa di interessante, che vale la pena considerare. Gli uomini del ‘600
capiscono che la realtà non è solo quella che da sempre è stata celebrata fin
dai Greci, che esaltavano solo la bellezza, ma si ricerca e valorizza anche ciò
che era considerato brutto. Da qui si comprende l’origine della lettera di
Francesco Redi, fondatore dell’accademia dei Lincei, che ragiona intorno alla
generazione degli insetti; testo che esplicita il nuovo ruolo dell’esperienza
sensoriale come oggettiva base per la conoscenza:
E non ha dubbio che
nel’intendimento delle cose naturali dati sono dal supremo Architetto (immagine con cui viene identificato un dio che non è
più quello cristiano) i sensi alla ragione come tante finestre o porte per
le quali ella si affacci a mirarle, o elleno entrino a farsi conoscere. Anzi,
per lo meglio dire, sono i sensi tante vedette o spiatori che mirano a scoprire
la natura delle cose e ‘l tutto riportano dentro alla ragione la quale, da essi
ragguagliata, forma di ciascuna cosa il giudizio.
Oltre a rimanere ammirati da
come gli scienziati sviluppavano le loro argomentazioni attraverso lo strumento
della letteratura (dato che le abbiamo appena analizzate, notate le metafore
presenti nel brano), si noti che l’oggetto di conoscenza dell’uomo si è ridotto
drasticamente alla sola realtà sensibile. Ed è attraverso gli stessi sensi che
l’uomo spiega a se stesso l’origine dell’errore; se infatti essi non sono
efficienti, la ragione umana è condotta a dare giudizi sbagliati e non
coincidenti con la realtà. La ragione stessa, inoltre, viene ridotta a puro
strumento di riconoscimento delle percezioni sensoriali e “magazzino” delle
immagini che ci arrivano dall’esterno. L’uomo può quindi essere ingannato, non
dalla realtà, ma da se stesso, poiché possiede capacità limitate; la sua stessa
ragione è limitata. Così continua Redi:
Ha corte l’ali la ragione
andando dietro a’ sensi, perché più oltre di quello ch’eglino apprendono ella
in cotale inchiesta non può comprendere.
Infatti la ragione dell’uomo,
se si guarda la storia, è stata ingannata in diversi modi; ora, grazie alla
scienza, si è scoperto che la realtà è da una parte diversa da quella che si
pensava (infatti in passato la ragione ha vagato senza la guida dei sensi per
mondi inventati da essa stessa), dall’altra più vasta di quello che si pensava,
di come la mente ottusa del passato la concepiva. Ecco perché dalla
predilezione per la simbologia del cerchio, i cui punti sono tutti equidistanti
da un unico centro come lo era Dio per il Medioevo, si passa a preferire la
figura dell’ellisse, che ha due fuochi, quindi più centri.
Benedetto Castelli, nel Discorso
sulla vista, fa emergere chiaramente questo tema che ricorre nella storia
della letteratura da secoli: la realtà non è ciò che appare.
L’oggetto, del quale si
debbe far giudizio intorno alla sua grandezza viene da noi stimato alle volte
maggiore, e alle volte minore, secondo che lo paragoniamo con diverse grandezze.
Lui dice questo in relazione
ad un fatto accadutogli poco prima. Mentre era in carrozza con un Monsignore
che si stupì della bellezza della Luna, lui gli chiese di darne una misura approssimativa
della grandezza. Il chierico però si è accorto con meraviglia di quanto essa
variasse alla percezione umana se paragonata a cose differenti: essa sembrava
più grande rispetto al colle Aventino da cui era spuntata, e assai più piccola
rispetto al cappello del compagno di carrozza. Eppure la Luna aveva sempre la
stessa immagine, e non variava di forma! Ecco un simpatico aneddoto che mostra
come «il nostro giudizio viene avviluppato e deluso»; eccoci dunque
davanti allo stesso insegnamento de La vita è sogno.
Ci si deve soffermare su un
altro aspetto di questa epoca affascinante per la sua diversità ed apertura
alla novità: l’utilizzo della lingua. Il gusto per la meraviglia, che
confluisce nello sforzo di ingegnarsi per stupire il lettore, in caso di
letteratura, genera una fioritura della capacità linguistica, una ricerca
minuziosa di formule affascinanti e geniali, un possesso delle parole e
dell’inventiva artistica inimmaginabili. Tra un fronzolo e l’altro, tra i
ricami delle frasi possiamo scorgere l’autore dire: “con le parole io posso
farci di tutto!”. Cito una battuta tratta dall’opera teatrale di Rostand, che
pur essendo un autore del fine ‘800, descrive, nel personaggio di Cirano di Bergerac,
un uomo del ‘600, non perfetto esteticamente (ricordo la ricerca del bello nel
brutto, ha infatti un naso enorme) ma ricco nell’animo. Questa ricchezza si
esprime attraverso la parola, di cui Cirano è completo dominatore.:
IL VISCONTE: (si avanza
verso Cirano che lo osserva, e piantandosi innanzi a lui fatuamente)
Voi…voi… avete un naso eh…
molto grande!
CIRANO: infatti!
IL VISCONTE: Ah!
CIRANO: (imperturbabile)
Questo è brutto?
IL VISCONTE: Ma…
CIRANO: E’ assai ben poca cosa!
Se ne potevan dire… ma ce
n’erano a josa,
variando di tono. – Si
potea, putacaso,
dirmi, in tono aggressivo:
«Se avessi un cotal naso,
immediatamente me lo farei
tagliare!»
Amichevole: «Quando
bevete, dèe pescare
nel bicchiere: fornitevi
di un qualche vaso adatto!»
Descrittivo: «E’ una
rocca!... E’ un picco!... Un capo affatto…
Ma che! L’è una penisola,
in una parola d’onore!»
Curioso: «A a che serve
quest’affare signore?
Forse da scrivania o da
portagioielli?»
Vezzoso: «Amate dunque a
tal punto gli uccelli
che vi preoccupate con
amore paterno
di offrire alle lor
piccole zampe un sì degno perno?»
Truculento: «Ehi, messere,
quando nello starnuto
il vapor del tabacco
v’esce da un tale imbuto,
non gridavano i vicini al
fuoco nella cappa?»
Cortese: «State attento,
che di codesta chiappa
il peso non vi mandi per
terra, a capo chino!»
Tenero: «Provvedetelo di
un piccolo ombrellino,
perché il suo bel colore
non se ne vada al sole!»
Pedante: «L’animale che
Aristofane vuole
si chiami
ippocampelofantocamaleonte
tante ossa e tanta carne
ebbe sotto la fronte!»
Arrogante: «Ohi, compare,
è in moda quel puntello?
Si può infatti benissimo
sospendervi il cappello!»
Enfatico: «Alcun vento, o
naso magistrale,
non può tutto infreddarti,
eccetto il Maestrale!»
Drammatico: «E’ il Mar
Rosso, quando ha l’emorragia!»
Ammirativo: «Oh, insegna
di gran profumeria!»
Lirico: «E’ una conca?
Siete un genio del mare?»
Semplice: «Il monumento si
potrà visitare?»
Rispettoso: «Soffrite vi
si ossequii, messere:
questo sì che vuol dire al
sole qualcosa avere!»
Rustico: «Ohé, corbezzole!
Dàgli dàgli al nasino!
È un cavolo gigante o un
popon piccolino?»
Militare: «Puntate contro
cavalleria!»
Pratico: «Lo vorreste
mettere in lotteria?
Sarebbe il primo lotto!» O
infin parodiando
Piramo, tra i singhiozzi:
«Eccolo l’esecrando
Naso che la bellezza del
suo gentil signore
Distrusse! Or ne
arrossisce, guardate, il traditore!»
Ecco, ecco, a un di
presso, ciò detto che mi avreste
Se qualche po’ di spirito
e di lettere aveste.
Ma di spirito, voi,
miserrimo furfante,
mai non ne aveste
un’oncia, e di lettere tante
quante occorrono a far la
parola: cretino!
Aveste avuto, d’altronde,
l’ingegno cos fino
Da potermi al cospetto
dell’inclita brigata
Servirmi tutti i punti di
questa cicalata,
non ne avreste nemmeno la
metà proferito
del quarto d’una sillaba,
ché, come avete udito,
ho vena da servirmeli
senz’alcuna riserva,
ma non permetto affatto
che un altro me li serva.
Immaginate un po’ la faccia
del Visconte! È esattamente questa faccia che vogliono ottenere gli autori.
La sfrenata ricerca
linguistica di questo periodo genera inoltre una nuova esperienza, quella dell’Accademia:
un gruppo di persone in stretta relazione che condivide un interesse e lo
approfondisce. Così nasce l’Accademia della Crusca a Venezia, con il progetto
di dare una sistemazione omogenea e definita della lingua italiana. Da qui
nasce un grande studio e una regolarizzazione della lingua che si concretizza
nel proporre un vocabolario, cioè un elenco alfabeticamente ordinato di parole
che emergono dalla letteratura italiana.
Un altro stupore venne dall’invenzione
di Daniello Bartoli di una prosa narrativa né trattistica ma letteraria e con
fini artistici-morali: una novità che successivamente ispirò altri autori, come
Manzoni (che ricrea la descrizione che fa da attacco al romanzo a partire da
una descrizione geografica che Bartoli fa del Gange nel suo libro Istoria
della compagnia di Gesù). La Ricreazione del savio ne è un
fantastico esempio.
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