RINASCIMENTO
Il Rinascimento è come un
treno che viaggia sui binari dell’umanesimo. Molte sono le immagini che
accomunano questi due periodi storici così simili, così vicini; in giro si
sente dire, giustamente, che «l’umanesimo è l’alba del Rinascimento», o, se
vogliamo continuare la metafora di prima, è l’ingrandirsi sempre maggiore di
quella che prima era solo una piccola crepatura del muro.
In Italia intanto c’è un
passaggio politico importante dal Comune alla Signoria: c’è una progressiva
affermazione di un casato, che sviluppa una propria corte mettendosi in
competizione con gli altri centri italiani, che hanno ospitato e permesso la
fioritura dell’umanesimo. Esistendo ora solo signorie, l’intellettuale per
sopravvivere ha bisogno di essere accolto in una corte che gli procuri vitto e
alloggio in cambio della produzione di opere sotto committenza; l’altra
possibilità possibile era di farsi curato per ricevere il denaro dagli
esponenti ecclesiastici, pur senza vocazione (scelta presa dallo stesso
Petrarca). In questa situazione, emergono naturalmente delle domande e dei
dubbi che sono gli stessi su cui i rinascimentali si sono interrogati: la
poesia è dettata dalla committenza? Che libertà ha il letterato e che libertà
ha la sua opera? Quanta verità ci sarà dunque nelle sue parole? Che rapporto
deve avere l’intellettuale con il suo principe? Posto che l’arte ha necessità
di una committenza perché l’artista possa mantenersi e quindi operare, come la
committenza stessa può coincidere con la libertà dell’autore di esprimersi? È
quindi l’arte un puro diletto, un accessorio della vita per compiacere i
signori? Ha un’incidenza, un ruolo nella realtà?
Baldassarre Castiglione è un
uomo di corte, un’intellettuale ospitato nel palazzo di Urbino, ed è colui che
più si è interrogato su questi temi, raccogliendo le sue tesi nel suo Libro
del Cortegiano, un volume che descrive i valori, le strategie, i
comportamenti e le regole ai quali il perfetto uomo di corte deve conformarsi
(la musica, la parola, il vestiario, la conversazione,la scelta degli amici).
Due sono i valori principali che ripropone: la grazia e la sprezzatura,
con la quale definisce quella naturalezza della persona nel fare senza che sia
visibile la fatica del fare, quella naturalezza esteriore che non è simulazione,
ma specchio di una sicurezza interiore nei confronti di un patrimonio artistico
acquistato, e quindi facente parte di sé. questa modalità di essere che è
visibile in un apparire si acquista solamente in uno studio assiduo, affinché
la corte sia un serbatoio di cultura, di umanità.
E, per dir forse una nova
parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri
ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo
credo io derivi assai la grazia; […] Perciò si po dir quella esser vera arte che non pare
esser arte; né più in altro si ha da poner studio, che nel nasconderla: perché
se è scoperta, leva tutto il credito e fa l’omo poco estimato.
E come può l’intellettuale
interagire con il principe? Quali sono i suoi doveri ed il suo ruolo? Ecco che
risponde, distanziandosi vertiginosamente dall’opinione di Machiavelli, e
invece avvicinandosi all’uomo virtuoso della cultura classica nel proporre un
ruolo formativo del cortegiano:
Il fin dunque del perfetto
cortegiano, estimo io che sia il guadagnarsi per mezzo delle condicioni
attribuitegli da questi signori talmente la benivolenzia e l’animo di quel
principe a cui serve, che possa dirgli e sempre gli dica la verità d’ogni cosa
che ad esso convenga sapere, senza timor o periculo di dispiacergli;[…] Perciò io
estimo che come la musica, le feste, i giochi e l’altre condicioni pacevoli son
quasi il fiore, così lo indurre o aiutare il suo principe al bene e spaventarlo
dal male, sia il vero frutto della cortegiania.
Niente è più importante di
questi valori. Il cortigiano dedica la sua vita a questo e intanto si diletta
in una vita fiorente di sale da ballo, banchetti, giochi cavallereschi, buone
maniere, vestiti alla moda: l’esteriore, il fronzolo superfluo ma grazioso è
l’importante. La letteratura non verte più sulle domande della vita ma tratta
di questa superficialità sterile. Come non mettere sulla stessa onda il Galateo
di Benedetto ???? Non vengono scritte cose sbagliate, ingiuste, scioccanti come
può essere per Machiavelli, ma il tema della letteratura diventa il nulla, una
riflessione sull’apparente, una valorizzazione della frivolezza, un disperdi
mento dell’uomo su ciò che veramente è essenziale. L’arte diletta ma non
provoca più, diventa arida e sterile, perché tratta di ciò che non centra con
la vita.
A testimonianza di ciò c’è
anche un’altra grande questione che ha occupato le menti degli intellettuali,
quella della lingua. Una volta constatato che il completo ritorno al latino era
un’utopia irrealizzabile, i letterati si domandano se il volgare possa
diventare la lingua di comunicazione condivisa in tutta Italia ed espressiva di
una nazionalità. Se sì, allora in quali modalità? Con quali caratteristiche
affermare il volgare? Quali sono i modelli da prendere in considerazione per
una nuova produzione linguistica? Cosa di può definire classico? Tra le più
svariate proposte, emerge come la più semplice, e quindi vincente, quella di
Pietro Bembo nel suo Prose della volgar lingua; in esso giudica che il
volgare da adottare come lingua della comunicazione letteraria ed orale è
quella che la tradizione mostra come il più ricco e florido, cioè il fiorentino
colto del ‘300. Prende così in riferimento un modello circoscritto nel tempo,
basandosi su tre modelli, le cosiddette “corone fiorentine”: Dante, Petrarca,
Boccaccio.
In questo periodo pieno di
domande e questioni nasce Ludovico Ariosto, un ragazzo che si forma
all’Università di Ferrara e successivamente entra, come cortegiano, nella corte
di Ippolito d’Este, a Ferrara, entrando così anch’esso nelle problematiche che
tormentavano il suo tempo. Combattendo tra la propria indipendenza in quanto
artista e la pragmatica necessità di essere mantenuto, Ludovico sviluppa il suo
capolavoro lungo tutta la sua vita, l’Orlando furioso, il libro che «mai
inizia e mai finisce», perché grazie alla sua struttura in ottave e alle
infinite vicende che si intrecciano, potrebbe essere ampliabile all’infinito.
Dato che già solo il titolo ha bisogno di spiegazioni, partiremo facendo un
passo indietro nella storia, proprio perché il nostro autore con quest’opera ha
voluto porsi in continuazione con un altro letterato, Matteo Maria Boiardo, che
scrisse l’Orlando innamorato: il primo poema della storia che mischia
guerra e amore, l’impresa bellica ideale e gli elementi tipici del ciclo
bretone, quali la magia e l’innamoramento del cavaliere protagonista. Rispetto
al primo poema cavalleresco scritto in volgare, quale è l’Orlando innamorato,
Ariosto crea qualcosa di più profondo e interessante rispetto alla semplice
letteratura con fine di intrattenimento. Troviamo sì, come esprime il proemio,
il tema della guerra con motivo ideale, la storia d’amore per l’irresistibile
Angelica, il ruolo encomiastico con la rispettiva dedica all’Estense e con la
storia di Ruggero e Bradamante; ma troviamo anche l’intricarsi delle diverse vicende
dei personaggi, assistiamo ad eventi imprevisti e impensabili che travolgono
gli uomini indifesi e disorientati, come persi nel labirinto della realtà
inspiegabile, della fatalità avversa e insensata. Orlando, Angelica, Rinaldo,
Sacripante??? non sono altro che burattini alla mercé del grande Demiurgo,
l’autore stesso, che, con un’impressionante lucidità e distacco, rimescola le
vicende dei personaggi intrecciandole, capovolgendole, rimodellandole e ridendo
con ironia sopra le sventure dei suoi giocattoli, godendo della loro ingenuità.
Questi personaggi travolti dai fatti rimangono disorientati davanti all’assenza
di una logicità, di una qualche guida nel mondo della casualità, che sembra
avere come unico assioma «le cose non sono quello che sembrano». Ecco i
pensieri di Sacripante, un cavaliere che, al veder Angelica addormentata tra i
cespugli, pensa di approfittare di lei, senza sapere che in realtà lei è
sveglia ad ascoltarlo:
la verginella è simile
alla rosa,
ch’in bel giardin su la
nativa spina
mentre sola e sicura
riposa,
né gregge né pastor se le
avvicina; […]
Ma non sì tosto dal
materno stelo
Rimossa viene e dal suo
ceppo verde,
che quanto avea dagli
uomini e dal cielo
favor, grazia e belezza,
tutto perde.
La vergine che ‘l fior, di
che più zelo
Che de’ begli occhi e de
la vita aver de’,
lascia altrui corre, il
pregio ch’avea inanti
perde nel cor di tutti gli
altri amanti. […]
Ah Fortuna crudel, Fortuna
ingrata!
trionfan
Infatti quello che presenta
Ariosto è un mondo al rovescio: donne a cavallo e cavalieri a piedi, e a sua
volta animali che conducono gli uomini sulla via e uomini che si affidano alle
bestie, chi si dovrebbe incontrare si fugge, guerrieri sporchi e rozzi invece
che eroici e splendenti, cavalieri musulmani e cristiani che dovrebbero
combattere e invece, stanchi e dimentichi del loro scopo, depongono le armi
preferendo una tregua:
Oh gran bontà de’
cavallieri antiqui!
Eran rivali, eran di fé
diversi,
e si sentian degli aspri
colpi iniqui
per tutta la persona anco
dolersi;
e pur per selve oscure e
calli obliqui (ripresa della selva
oscura di Dante)
insieme van senza sospetto
aversi.
Davanti a questo caso
insensato, che vuole il male, che intesse intrighi, che fa soffrire gli uomini
che vedono tutti i loro desideri infranti e non coincidenti con la realtà,
l’uomo impazzisce. La furia di Orlando è verso il mondo, verso l’opprimente
Fortuna, è la rabbia per la propria impotenza e disorientamento nel mondo.
Diventa folle perché ha capito che d’altronde il mondo non è retto da una
logicità, si ribella con tutto quello che ha, con tutto se stesso. Grida, si
strappa le vesti, nega la realtà e non vuole accettare il fatto che Angelica,
la donna che ama, per cui darebbe tutto, è felice con un altro. Vedendo le
incisioni che la coppietta lascia sulle cortecce degli alberi, si illude
penosamente che sia un’altra Angelica, e non la sua donna. Ecco la
dimostrazione di come l’uomo diventa violento con se stesso e con tutto quello
che lo circonda quando scopre che la sua idea non è reale, che i suoi desideri
gli vengono negati, che il destino non esiste e che la vita in fondo non ha
senso ed è un labirinto costruito per far divertire gli dei. Sembra proprio di
essere ritornati all’antica Grecia, in cui almeno c’era lo sforzo dell’uomo a
conservare la sua dignità e la sua grandezza interiore.
Ma non è vero che tutto il
Rinascimento è “pagano”, che viene dimenticata l’esperienza cristiana. Torquato
Tasso è infatti il primo autore veramente cristiano che incontriamo dai tempi
di Dante. Crebbe e si formò nel periodo del Concilio di Trento e del recupero
della Poetica di Aristotele, che porta i letterati ad affiancare alla
produzione creativa la riflessione critica: gli autori quindi riflettono su ciò
che scrivono e su come lo scrivono. La poesia viene valorizzata in quanto forma
di conoscenza della realtà, attività razionale che ha a che fare con la verità
e avente un metodo proprio. La rivalutazione di questo testo del filosofo greco
fa nascere domande come: che rapporto c’è tra poesia e struttura dell’uomo? Lo
stesso Tasso, nel proemio del suo capolavoro, la Gerusalemme liberata,
riprende la metafora di Lucrezio per esprimere il valore della letteratura:
come al bambino malato si dà la medicina amara in un bicchiere con i bordi
cosparsi di zucchero, così la letteratura cura l’anima dell’uomo dilettandolo, facendogli
provare piacere nella bellezza estetica; un inganno a fin di bene (questione a
cui Tasso tiene moltissimo, quasi ossessivamente a causa della sua difficoltà
personale a fidarsi di qualsiasi persona).
Così a l’egro fanciul
progiamo aspersi
Di soavi licor gli orli
del vaso:
succhi amari ingannati ei
beve,
e da l’inganno suo vita
riceve.
Lo scopo della letteratura è
quindi quello di avere non tanto un’utilità pratica, come invece per
Machiavelli, ma un’utilità morale, perché la letteratura è utile se educa e
rende migliore l’uomo e, di conseguenza, la realtà. Per questo Tasso scrive la Gerusalemme
liberata con lo scopo di risvegliare il desiderio di grandezza nel cuore
dell’uomo (“O musa […]tu spira al petto mio celesti ardori”) attraverso
una determinata forma: arrivare al bene attraverso il bello. Non troviamo più
il trattato di Machiavelli, il suo periodo architettonico rigido e scandito,
lucido e freddo, che illustra una tesi con argomenti ed esempi, ma un poema
eroico in ottave, con richiami classici, con personaggi sviluppati
psicologicamente, con eroi pieni di desiderio e fede, con giovani che si
perdono nelle lusinghe del male, con donne coraggiose piene di umanità, con
fanciulle che seguono il proprio desiderio d’amore e sfidano i pericoli.
Quanta umanità in queste
pagine, quanti esempi di come si muove l’uomo davanti alle circostanze, quanti
insegnamenti, tanto che si potrebbe scrivere un libro solo per commentare le
scene di più spessore; per questo non ne tratterò qui, invece mi soffermerò
sulla novità principale di questo testo.
Ciò che più stupisce di
questo poema è come viene trattato il male, la fatica strutturale dell’uomo,
l’errore, il peccato, la debolezza dei personaggi; qui non si trova la disperazione
dei Greci verso un destino ingiusto, la rassegnazione ad un Fato insensato, ma un’inspiegabile
gioia che nasce nel dolore, una speranza nuova per cui la sofferenza stessa diventa
via di redenzione, di espiazione. Il dolore, ciò che i Greci pensassero
imbruttisse l’uomo, invece lo esalta perché diventa luogo di incontro della
misericordia divina.
Tasso, nella sua vita
travagliata e intrisa di dolore (per la morte dei genitori, per la solitudine
provata davanti alla sua malattia), ha dedicato un’attenzione particolare a
questo tema della sofferenza: leggiamo questo frammento tratto dalla parte
finale della Canzone al Metauro.
Padre, o buon padre, che
dal ciel rimiri,
egro e morto ti piansi, e
ben tu il sai,
e gemendo scaldai
la tomba e il letto: or
che ne gli alti giri
tu godi, a te si deve
ancor, non lutto:
a me versato il mi
dolor sia tutto.
Ecco un uomo che, nelle
lacrime più amare, si sente comunque figlio di un Padre buono.
Che cosa spinge un uomo a
dire “non rifiuto più il dolore, voglio capirne il senso”?
Questa riflessione è portata
all’estremo quando, nel secondo canto della Gerusalemme liberata, Tasso mette
in scena ciò che più aveva fatto interrogare l’anima greca, il «giusto
sofferente», trasfigurandolo alla luce della buona novella cristiana. Sofronia
ad offrirsi come martire, a scegliere di morire e di soffrire per risparmiare
il suo popolo cristiano dalla furia del musulmano re Aladino? Sofronia, una
donna bella e riservata, che per tutta la vita era rimasta in casa a filare,
che non si era mai esposta per un profondo pudore, a sacrificarsi, decide
volontariamente di sacrificarsi per salvare il popolo cristiano dall’ira del re
musulmano Aladino, che esige vendetta per il furto dell’immagine sacra di Maria
Vergine. Essa esce per la prima volta tra la folla, si fa avanti, si mostra
come ladra, si incolpa ingiustamente di un peccato che non ha commesso, mentre
la sua anima vergine è bianca come neve; e per giunta col sorriso sulle labbra!
Che certezza l’ha spinta a questo gesto e cosa le permette la gioia nella fine
della vita? Cosa la accompagna fino alla tomba, fino alla morte tanto da farle
risplendere un sorriso vittorioso sulle labbra?
Presa è la bella donna, e
‘ncredulito
Il re la danna entr’un
incendio a morte.
Già ‘l velo e ‘l casto
manto a lei rapito,
stringon le molli braccia
aspre ritorte.
Ella si tace, e in lei non
sbigottito,
ma pur commosso alquanto è
il petto forte;
e smarrisce il bel volto
in un colore
che non è pallidezza,
ma candore.
La morte di questo «giusto
sofferente» non risveglia in noi nessuna angoscia, né un grido di rivolta che
possiamo sentire crescere in noi davanti ad un’Antigone. Sembra invece che
Sofronia vada incontro al compimento del suo destino; acquista, nella
sofferenza, un’inspiegabile bellezza. Essa acquista “candore”,
purificazione dal peccato. Tasso è il genio che ha semplicemente riproposto la
novità del cristianesimo in vesti letterarie, che dipinto sotto un’altra veste
la stessa passione di Cristo, il «giusto sofferente» per antonomasia. Anche
Sofronia infatti, prima di morire, ci ricorda che la sua forza non proviene da
se stessa:
Così dicea piangendo. Ella
il ripiglia
Soavemente, e ‘n tai detti
il consiglia:
- Amico, altri pensieri,
altri lamenti,
Per più alta cagione il
tempo chiede.
Chè, non pensi a tue
colpe? E non rammenti
Qual Dio prometta a i
buoni ampia mercede?
Soffri in suo nome, e fian
dolci i tormenti,
e lieto aspira a la
superba sede.
Mira ‘l ciel com’è bello,
e mira il sole
Ch’a sé par che n’inviti e
console.
Questa grandezza nell’uomo
che accetta di soffrire conoscendone il significato, colpisce tutti gli uomini:
nessuno può resistere ad un amore gratuito. Credenti o no credenti. Ecco perché
Clorinda, una guerriera araba, sia commossa dalla grandezza di questo gesto di
una nemica cristiana, tanto da impedirne il martirio. Ecco rivelato in che
senso Tasso vuole risvegliare nel cuore umano, attraverso la letteratura, il
desiderio di grandezza.
Ciò è inimmaginabile per i
Greci, per cui non c’era nulla di peggio che la fine della vita, che vedevano
il dolore come obiezione alla grandezza dello spirito umano, come qualcosa di
inflitto dagli dei e che si deve subire con dignità, conservando la propria
integrità per essere migliore delle stesse divinità. Per loro, l’unica dolcezza
possibile e desiderabile era sulla terra, era nel piacere delle danze, del
cibo, dei giochi; la morte invece non era che un eterno ricordo sfumato di ciò
che è stato in vita ma che non può più essere.
Qui invece c’è un uomo che
chiede di soffrire e che desidera capirne il senso; c’è un uomo che ha fede in
un Dio che sa essere buono, e che quindi è sicuro che anche dal dolore possa
nascere qualcosa di buono, tra le lacrime, tra le visioni che tormentavano la
sua mente e le sue notti, tra la malattia che si è ritrovato addosso e che lo
ha allontanato da tutte le amicizie, che lo ha sbattuto in carcere, per cui lo
hanno chiamato “pazzo” e “indemoniato”. Eppure lui è certo che Dio non
abbandona i suoi figli. Tutti i personaggi della Gerusalemme liberata
non sono esenti dalla vita: sbagliano, amano, uccidono, si ingannano perché
anche qui, come in Ariosto, le cose non sono quello che sembrano, ma sono certi
della bontà del destino. Essi non sono imprigionati in un labirinto crudele,
travolti dagli avvenimenti, non sono burattini in mano ad un Demiurgo sadico;
essi sono uomini che in ogni istante ricercano il proprio destino, sempre in
azione, sempre in lotta con il male tentatore, sempre speranzosi. Ciò che
domina tutta la loro vita, pur nell’errore e nella dispersione, è un Padre
benevolo, un Dio che accompagna i suoi figli e partecipa alla loro sofferenza:
E ‘l fine ormai di quel
piovoso inverno,
che fea l’arme cessar,
lunge non era;
quando da l’alto soglio il
Padre eterno,
ch’è ne la parte più del
ciel sincera,
e quanto è da le stelle al
basso inferno,
tanto è più in su de la
stellata spera,
gli occhi in giù volse, e
in un sol punto e in una
vista mirò ciò ch’in sé il
mondo aduna.
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