UMANESIMO (I centri
fondamentali dell’umanesimo sono stati Urbino, Venezia, Padova, Milano,
Mantova, Ferrara, Bologna, Firenze, Roma, Napoli)
Petrarca fu per la storia
come una crepa che col tempo fa crollare il muro. Questo poeta, infatti, ha
introdotto nella storia un dubbio, che forse fino ad allora nessuno si era
posto con tanta intensità: ma Dio ha lasciato solo l’uomo? Ma Dio è buono? Rileggendo
alcuni sonetti del suo Canzoniere, trasudanti dolore e nello stesso
tempo un desiderio però ristretto da proprie idee e fantasticherie, la risposta
è evidentemente positiva per la prima domanda, negativa per la seconda. Basta
una lettura veloce per veder saltare all’occhio l’ossessivo ricorrere di alcune
parole come “solo”, nel senso della solitudine, “piango”, per notare subito un
senso di abbandono, come se il destino schiacciasse l’uomo, come se lo
prendesse alla sprovvista:
Era ‘l giorno ch’al sol si
scoloraro
per la pietà del suo Fattore i rai,
quando i’ fui preso, e non me ne guardai,
che i be’ vostr’occhi, Donna, mi legaro.
per la pietà del suo Fattore i rai,
quando i’ fui preso, e non me ne guardai,
che i be’ vostr’occhi, Donna, mi legaro.
Questa sofferenza, questo
dubbio radicale furono tanto grandi da essere trasmessi ad altri. Sempre di più
furono gli uomini che si posero lo stesso quesito, sempre più pensatori e
uomini di cultura, sempre più individui si sentirono abbandonati dal destino,
da un dio in fondo cattivo perché contro la nostra volontà; di conseguenza
abbandonarono anche loro Dio. E quando al centro della vita non c’è più Dio,
allora c’è l’uomo. Questo problema è stato solamente riproposto all’umanità,
perché esisteva già da molto tempo; basta prendere in esame le tragedie greche,
massima denuncia del dolore inflitto agli uomini da dei malvagi, dai quali non
possono fare altro che difendersi, affermando se stessi, affermando in
opposizione la loro grandezza, la loro bellezza, di cui erano tanto innamorati.
Non per niente, due delle
parole riassuntive dell’umanesimo, questo flusso di pensiero, di diversità nato
dalla crepa di Petrarca che investe la storia a partire dal 1375, per dare una
data indicativa con la morte di Boccaccio, sono proprio «petrarchismo» e
«classicismo». Ed è per questo che il nome stesso della, per così chiamarla,
“corrente”, umanesimo, deriva dagli studia humanitatis antichi,
da “umanità”, come a ricalcare la posizione centrale dell’uomo.
Il cristianesimo non viene di
certo perso improvvisamente e da tutti, ma è già solo una novità il fatto che
viene messo in discussione. E, in questo maremoto scatenato da una singola
persona, non viene messo in discussione solo la religione, ma un’intera epoca
storica, oscura, buia perché non rischiarata dalla luce dell’uomo che si è
fatto sottomettere dalla divinità, l’epoca appena precedente: il Medioevo, il
tempo del degradamento dell’uomo. Sembra quasi di sentire l’eco del De rerum
natura di Lucrezio, che si immagina l’umanità schiacciata sotto il piede
della religione, personificata in un mostruoso gigante.
Allora l’uomo, che si vede al
centro di tutto, vive per accrescere se stesso: si dedica allo studio
dell’antichità, che emula nei modelli e nei principi (rimando alla riflessione
di Angelo Poliziano sull’imitazione), riscopre il greco, a cui il distratto
Medioevo non aveva tempo di pensare; si diletta nella poesia durante l’otio
ciceroniano; si affanna nella ricerca di sempre più manoscritti antichi, nel
tentativo di recuperare e conservare la memoria del passato in cui l’uomo era
veramente se stesso perché la sua ragione non era ostacolata da nulla e da
nessun dio; ritorna addirittura ad utilizzare la lingua di coloro che emulano,
sostituendo così il rozzo volgare con l’illustre latino; si impegna nello
studio della lingua e, come un vasaio, la rimodella secondo le sue necessità, ci
gioca, la padroneggia, ne assapora l’intrinseco potere. L’uomo, insomma, cerca
di migliorarsi, perché vede che la storia procede potenzialmente verso il meglio,
e lui, facendo parte di questa storia, vuole evolversi, vuole produrre, vuole
accrescere se stesso.
Il culmine della poesia come otio,
dell’emulazione del lusso e della gloria antica, si può concretizzare nel Trionfo
di Bacco e Arianna di Lorenzo il Magnifico. Riproducendo un trionfo latino,
riprendendo elementi della mitologia greca, scegliendo un metro facilmente
musicabile, il politico fiorentino nello stesso tempo usa la forma antica ma
svuotandola di significato, e soprattutto cercando di eliminare una faccia
dell’antichità, forse quella più intensa ed interessante, qui solo accennata
nella figura del vecchio re Mida: il dolore, la tristezza. Questo inno all’hakuna
matata, ad una vita “senza pensieri” incita ad un carpe diem più
superficiale di quello oraziano, riadattato in un messaggio che si può
riassumere in: «goditi la vita e non ci pensare, finché non invecchi!», o
almeno «finché dura». Tuttavia, nella stessa strofa, viene come
impercettibilmente accennato quanto questo piacere tanto esaltato è ultimamente
effimero.
Quant’è bella giovinezza
Che si fugge tuttavia:
chi vuol esser lieto, sia,
di doman non c’è certezza.
[…]
Mida vien drieto a
costoro:
ciò che tocca, oro
diventa.
E che giova aver tesoro,
s’altri poi non si
contenta?
Che dolcezza vuoi che
senta
Chi ha sete tuttavia?
Chi vuol esser lieto, sia,
di doman non c’è certezza.
In questo clima nasce la
stampa (che ha il suo culmine con Aldo Manuzio), che permette un’inimmaginabile
fioritura della cultura; con una più disponibile la circolazione dei testi, i
letterati creano una rete di intersbambio di pensieri, scoperte, riflessioni,
fomentando così il già ampio desiderio di miglioramento di sé.
In questo clima si spiega
quindi la nascita della filologia in letteratura, della prospettiva in arte,
della concezione di storia: tutti tentativi di razionalizzazione da parte
dell’uomo.
In questo clima si comprende
la lettera di Poggio Bracciolini all’amico Guarino Veronese, in cui esalta l’uso
della ragione non più come mezzo della felicità, ma come fine, coincidente al
“vivere bene”. Di sicuro gli umanisti avevano carpito l’eccezionalità dell’uomo
rispetto a qualsiasi animale o vegetale: ben lontani dagli animalisti d’oggi!
La natura (e non più Dio!),
madre di tutte le cose, ha dato al genere umano intelletto e ragione, quali
ottime guide al vivere bene e facilmente, e tali che nulla possa pensarsi di
più egregio.
Continua poi mettendo in
evidenza il valore della parola per l’umanista, indispensabile all’esistenza
della ragione e tanto grande da cambiare il mondo (come mostra anche il
tentativo di Lorenzo Valla con l’orazione scritta al re di Napoli invitandolo a
cambiare il nome del Regno delle Due Sicilie).
Ma non so se siano
veramente eccellentissimi, fra tutti i beni che a noi ha concesso, la capacità
e l’ordine del dire, senza cui la ragione stessa e l’intelletto nulla
potrebbero valere. Infatti è solo il discorso quello per cui perveniamo ad
esprimere la virtù dell’animo, distinguendoci dagli altri animali.
Passa poi a raccontare
all’amico letterato il «caso fortunato» che lo ha condotto a scoprire in
una biblioteca dimenticata, il manoscritto contenente l’opera di Quintiliano;
allora i toni della lettera si colorano di un sincero entusiasmo, come un
bambino che, scavando tra la sabbia, scopre una vecchia monetina.
Come ho già accennato, la
concezione cristiana non viene abbandonata, anzi rimane una realtà in
maggioranza. Infatti, Pico della Mirandola, nel suo Discorso sulla dignità
dell’uomo (titolo che già parla da sé, ritornando al discorso su chi sta al
centro della vita), afferma ancora la creazione, che l’uomo nasce dall’amore di
Dio, come coronamento di tutto l’universo, ma è doveroso notare il peso che dà
alla libertà dell’uomo e alla capacità innata in lui.
L’ottimo artefice stabilì
infine che, a colui al quale nulla poteva esser dato di proprio, fosse comune
tutto quanto era stato concesso di particolare alle singole creature. Prese
dunque l’uomo, questa creatura di aspetto indefinito, e, dopo averlo collocato
nel centro del mondo, così gli si rivolse: “O Adamo, non ti abbiamo dato una
sede determinata, né una figura tua propria, né alcun dono peculiare, affinché
quella sede, quella figura, quei doni che tu stesso sceglierai, tu li possegga
come tuoi propri, secondo il tuo desiderio e la tua volontà. […] tu, che non sei racchiuso entro alcun limite,
stabilirai la tua natura in base al tuo arbitrio, nelle cui mani ti ho
consegnato. Ti ho collocato al centro del mondo perché da lì tu potessi
osservare tutto quanto è nel mondo.
Per l’umanista cristiano
l’uomo è quindi un grande miracolo, dotato di libertà e di tutte le capacità
necessarie per decidere di se stesso, e, se lo sceglie, per tornare a Dio.
Mi chiederete: non è forse
vero? Certo! Infatti, questo movimento, questo abisso di diversità rispetto al
Medioevo, come ogni cosa, non è solo negativo o solo positivo.
Forse nell’abbassamento di se
stessi, nella ricerca quasi ossessiva dell’umiltà che caratterizzava il
Medioevo, l’uomo era arrivato a cancellare se stesso; forse spesso aveva
annebbiato la ragione in una fede che aveva reso lui stesso totalitaria,
dittatrice.
E d’altra parte come non
denunciare un’estremizzazione della riscoperta delle capacità dell’uomo? Come
non rimanere perplessi da un’illusione di autosufficienza, comprensibile nei
Greci ma non dopo la venuta di Cristo? È da questa totale autosufficienza dal
destino che nasce il “genio” inquietante, sconvolgente di Machiavelli. Nel XXV
capitolo del Principe, possiamo trovare il completo ritorno al mondo
greco, in quanto viene accantonata la Provvidenza cristiana in favore della
Fortuna pagana, e in un certo senso un suo superamento:
Nondimanco, perché il
nostro libero arbitrio non sia spento, iodico essere vero che la fortuna sia
arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare
l’altra metà, o presso, a noi. E assomiglio quella a uno di questi fiumi
rovinosi che, quando si adirano, allagano e’ piani, rovinano gli arbori e li
edifizi, lievano da questa parte terreno, pongono da quella altra: ciascuno
fugge loro dinanzi, ognuno cede all’impeto loro sanza potervi in alcuna parte
ostare. E, benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono
tempi quieti, non vi potessino fare provvedimento e con ripari e con argini: in
modo che, crescendo poi, o eglino andrebbono per uno canale o l’impeto loro non
sarebbe né sì dannoso né sì licenzioso. Similmente interviene della fortuna, la
quale dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle: e quivi
volta e’ suoi impeti, dove la sa che non sono fatti gli argini né e’ repari a
tenerla.
E possiamo vedere ancora,
nella lettera indirizzata a Francesco Vettori, scritta in un periodo nero della
sua vita, esiliato dalla sua patria, il ritorno a questa concezione:
E poiché la fortuna vuole
fare ogni cosa, ella si vuole lasciarla fare, stare quieto e non darle briga, e
aspettare tempo che la lasci fare qualche cosa agl’huomini; […]
C’è un ritorno agli dei
malvagi, anzi, al Caso devastatore, che colpisce gli uomini
indiscriminatamente, come un fiume in piena, irresistibile. L’unica opzione
dell’uomo è opporre se stesso, opporsi con la parte più alta di sé, la ragione,
con la sua “virtù”, la capacità di ingegno di cui è stato dotato dalla
natura benigna. E allora l’uomo non verrà oppresso dalle circostanze portatrici
di pianto e dolore, se l’uomo si farà furbo, se l’uomo non userà anche lui un
po’ di quella cattiveria maliziosa di cui è intessuto il mondo e quindi lui
stesso.
Ebbene, se i Greci avevano
trovato come soluzione l’accrescimento della bellezza dell’uomo, l’innalzamento
della sua umanità, della sua grandezza, Machiavelli trova una scappatoia al
destino maligno attraverso la malignità stessa. La vita ci schiaccia? Allora
spostati! La fortuna ti investe come un fiume in piena? Allora costruisciti una
barca e non farci salire nessuno per essere sicuro che, nel tirarlo in salvo,
non ti butti in acqua! Con furbizia, avendo come sola regola l’utilità
personale, il bene proprio, dritto verso la salvezza…da solo.
Il Principe è quindi
un manuale tecnico e scientifico, perfettamente ed ordinatamente esposto,
efficace e spaventosamente lucido, scritto a ??? con un’intenzione implicita di
farsi riammettere in patria???, perché quella esplicita è di trattare di «che
cosa è principato, di quale spezie sono, come e’ si acquistono, come e’ si
mantengono, perché e’ si perdono.» In questo “opuscolo”, come lo
chiama lui stesso, non fa altro che esporre nell’ambito del tema particolare
della politica il principio della vita intera: guardare a nient’altro se non
all’utilità rispetto a ciò che si vuole raggiungere nelle diverse circostanze,
il che giustifica qualsiasi azione, qualunque pensiero, qualsivoglia parola. Lo
slittamento dall’ideale, dal centro di questo, che è Dio, a se stesso è qui
completo. Come Petrarca, Machiavelli ha procurato un’altra, e molto più spessa
crepa nelle fondamenta del muro della storia e del cuore dell’uomo mettendo su
diversi piani l’ideale e l’azione. La divisione tra politica e la religione,
l’unica esplicita nel libro, nasconde una realtà ben più frammentata in tanti
scompartimenti a sé. Proponendo a Lorenzo de’ Medici il modello del principe in
Cesare Borgia, la cui unica pecca fu quella di essere sfortunato, scrive così:
Chiunque iudica necessario
nel suo principato nuovo assicurarsi delli inimici, guadagnarsi delli amici; vincere
o per forza o per fraude; farsi amare e temere da’ populi, seguire e riverire
da’ soldati; spegnere quelli che ti possono o debbono offendere; innovare
con nuovi modi gli ordini antiqui; essere severo e grato, magnanimo e liberale;
spegnere la milizia infedele, creare della nuova; mantenere l’amicizie de’ re e
de’ principi in modo ch’e’ di abbino a beneficare con grazia o offendere con
rispetto; non può trovare e’ più freschi esempli che le azioni di costui.
Ed ecco che, nel capitolo
XVIII, arriva al nocciolo della questione: essendo l’uomo ultimamente cattivo,
ciascuno deve dedicare la propria vita al conseguimento dell’utile personale,
senza lasciarsi ingannare dalle illusioni della religione, che distoglie l’uomo
dalla praticità della vita e che gli fa credere che ci sia altro dalla realtà
puramente percettibile.
Ma sendo l’intento mio
scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto
alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa. E molti si
sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né
conosciuti essere in vero; perché elli è tanto discosto da come si vive a come
si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che fa per quello che si
dovrebbe fare impara piuttosto la ruina che la pereservazione sua: perché uno
uomo che voglia fare in tutte le parti professione di buono, conviene rovini
infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi
mantenere, imparare a potere essere non buono, e usarlo e non usare secondo la
necessità.
In questa frammentazione,
l’uomo si ritrova imprigionato in un insopportabile dualismo, si trova esso
stesso frammentato. È proprio Machiavelli a denunciarlo nella lettera che scrive
a Francesco Vettori sopracitata: dopo aver descritto come tutto il giorno butta
via il tempo in taverna, giocando insieme ai contadini, imprecando anche lui
tra le urla dei rozzi, sopportando la situazione in cui la fortuna l’ha messo,
scrive:
Così rinvolto entra questi
pidocchi traggo el cervello di muffa, et sfogo questa malignità di
questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la
se ne vergognassi.
Venuta la sera, mi ritorno
in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste
cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni reali et curiali; et
rivestito con decentemente entro nelle antique corti degli antiqui huomini,
dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui; dove io non
mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni,
et quelli per loro humanità mi rispondono; et non sento per 4 hore di tempo
alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la
morte: tucto mi transferisco in loro.
Qual è quindi la vera vita
Quella tra il popolino ignorante, tra i “pidocchi”, così infima e non
esauriente o quella virtuosa, quella grande tra le pagine degli illustri
antichi?
E concludiamo l’analisi
dell’umanesimo proprio con queste parole di Machiavelli, da cui traspare
l’abbandono totale di quei studiosi in un passato tanto stimato quanto lontano,
ritrovandosi addosso il desiderio di riprodurlo e l’impossibilità del farlo.
Non avrebbero potuto tornare alla grecità, o all’antica Roma, perché un fatto
che entrò nella storia la sconvolse fin dalle fondamenta: la venuta di Dio
sulla Terra.
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