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martedì 9 settembre 2014

L'UMANESIMO - tema

UMANESIMO (I centri fondamentali dell’umanesimo sono stati Urbino, Venezia, Padova, Milano, Mantova, Ferrara, Bologna, Firenze, Roma, Napoli)
Petrarca fu per la storia come una crepa che col tempo fa crollare il muro. Questo poeta, infatti, ha introdotto nella storia un dubbio, che forse fino ad allora nessuno si era posto con tanta intensità: ma Dio ha lasciato solo l’uomo? Ma Dio è buono? Rileggendo alcuni sonetti del suo Canzoniere, trasudanti dolore e nello stesso tempo un desiderio però ristretto da proprie idee e fantasticherie, la risposta è evidentemente positiva per la prima domanda, negativa per la seconda. Basta una lettura veloce per veder saltare all’occhio l’ossessivo ricorrere di alcune parole come “solo”, nel senso della solitudine, “piango”, per notare subito un senso di abbandono, come se il destino schiacciasse l’uomo, come se lo prendesse alla sprovvista:

Era ‘l giorno ch’al sol si scoloraro
per la pietà del suo Fattore i rai,
quando i’ fui preso, e non me ne guardai,
che i be’ vostr’occhi, Donna, mi legaro

Questa sofferenza, questo dubbio radicale furono tanto grandi da essere trasmessi ad altri. Sempre di più furono gli uomini che si posero lo stesso quesito, sempre più pensatori e uomini di cultura, sempre più individui si sentirono abbandonati dal destino, da un dio in fondo cattivo perché contro la nostra volontà; di conseguenza abbandonarono anche loro Dio. E quando al centro della vita non c’è più Dio, allora c’è l’uomo. Questo problema è stato solamente riproposto all’umanità, perché esisteva già da molto tempo; basta prendere in esame le tragedie greche, massima denuncia del dolore inflitto agli uomini da dei malvagi, dai quali non possono fare altro che difendersi, affermando se stessi, affermando in opposizione la loro grandezza, la loro bellezza, di cui erano tanto innamorati.
Non per niente, due delle parole riassuntive dell’umanesimo, questo flusso di pensiero, di diversità nato dalla crepa di Petrarca che investe la storia a partire dal 1375, per dare una data indicativa con la morte di Boccaccio, sono proprio «petrarchismo» e «classicismo». Ed è per questo che il nome stesso della, per così chiamarla, “corrente”, umanesimo, deriva dagli studia humanitatis antichi, da “umanità”, come a ricalcare la posizione centrale dell’uomo.
Il cristianesimo non viene di certo perso improvvisamente e da tutti, ma è già solo una novità il fatto che viene messo in discussione. E, in questo maremoto scatenato da una singola persona, non viene messo in discussione solo la religione, ma un’intera epoca storica, oscura, buia perché non rischiarata dalla luce dell’uomo che si è fatto sottomettere dalla divinità, l’epoca appena precedente: il Medioevo, il tempo del degradamento dell’uomo. Sembra quasi di sentire l’eco del De rerum natura di Lucrezio, che si immagina l’umanità schiacciata sotto il piede della religione, personificata in un mostruoso gigante.
Allora l’uomo, che si vede al centro di tutto, vive per accrescere se stesso: si dedica allo studio dell’antichità, che emula nei modelli e nei principi (rimando alla riflessione di Angelo Poliziano sull’imitazione), riscopre il greco, a cui il distratto Medioevo non aveva tempo di pensare; si diletta nella poesia durante l’otio ciceroniano; si affanna nella ricerca di sempre più manoscritti antichi, nel tentativo di recuperare e conservare la memoria del passato in cui l’uomo era veramente se stesso perché la sua ragione non era ostacolata da nulla e da nessun dio; ritorna addirittura ad utilizzare la lingua di coloro che emulano, sostituendo così il rozzo volgare con l’illustre latino; si impegna nello studio della lingua e, come un vasaio, la rimodella secondo le sue necessità, ci gioca, la padroneggia, ne assapora l’intrinseco potere. L’uomo, insomma, cerca di migliorarsi, perché vede che la storia procede potenzialmente verso il meglio, e lui, facendo parte di questa storia, vuole evolversi, vuole produrre, vuole accrescere se stesso.
Il culmine della poesia come otio, dell’emulazione del lusso e della gloria antica, si può concretizzare nel Trionfo di Bacco e Arianna di Lorenzo il Magnifico. Riproducendo un trionfo latino, riprendendo elementi della mitologia greca, scegliendo un metro facilmente musicabile, il politico fiorentino nello stesso tempo usa la forma antica ma svuotandola di significato, e soprattutto cercando di eliminare una faccia dell’antichità, forse quella più intensa ed interessante, qui solo accennata nella figura del vecchio re Mida: il dolore, la tristezza. Questo inno all’hakuna matata, ad una vita “senza pensieri” incita ad un carpe diem più superficiale di quello oraziano, riadattato in un messaggio che si può riassumere in: «goditi la vita e non ci pensare, finché non invecchi!», o almeno «finché dura». Tuttavia, nella stessa strofa, viene come impercettibilmente accennato quanto questo piacere tanto esaltato è ultimamente effimero.

Quant’è bella giovinezza
Che si fugge tuttavia:
chi vuol esser lieto, sia,
di doman non c’è certezza.

[…]

Mida vien drieto a costoro:
ciò che tocca, oro diventa.
E che giova aver tesoro,
s’altri poi non si contenta?
Che dolcezza vuoi che senta
Chi ha sete tuttavia?
Chi vuol esser lieto, sia,
di doman non c’è certezza.

In questo clima nasce la stampa (che ha il suo culmine con Aldo Manuzio), che permette un’inimmaginabile fioritura della cultura; con una più disponibile la circolazione dei testi, i letterati creano una rete di intersbambio di pensieri, scoperte, riflessioni, fomentando così il già ampio desiderio di miglioramento di sé.
In questo clima si spiega quindi la nascita della filologia in letteratura, della prospettiva in arte, della concezione di storia: tutti tentativi di razionalizzazione da parte dell’uomo.
In questo clima si comprende la lettera di Poggio Bracciolini all’amico Guarino Veronese, in cui esalta l’uso della ragione non più come mezzo della felicità, ma come fine, coincidente al “vivere bene”. Di sicuro gli umanisti avevano carpito l’eccezionalità dell’uomo rispetto a qualsiasi animale o vegetale: ben lontani dagli animalisti d’oggi!

La natura (e non più Dio!), madre di tutte le cose, ha dato al genere umano intelletto e ragione, quali ottime guide al vivere bene e facilmente, e tali che nulla possa pensarsi di più egregio.

Continua poi mettendo in evidenza il valore della parola per l’umanista, indispensabile all’esistenza della ragione e tanto grande da cambiare il mondo (come mostra anche il tentativo di Lorenzo Valla con l’orazione scritta al re di Napoli invitandolo a cambiare il nome del Regno delle Due Sicilie).

Ma non so se siano veramente eccellentissimi, fra tutti i beni che a noi ha concesso, la capacità e l’ordine del dire, senza cui la ragione stessa e l’intelletto nulla potrebbero valere. Infatti è solo il discorso quello per cui perveniamo ad esprimere la virtù dell’animo, distinguendoci dagli altri animali.

Passa poi a raccontare all’amico letterato il «caso fortunato» che lo ha condotto a scoprire in una biblioteca dimenticata, il manoscritto contenente l’opera di Quintiliano; allora i toni della lettera si colorano di un sincero entusiasmo, come un bambino che, scavando tra la sabbia, scopre una vecchia monetina.

Come ho già accennato, la concezione cristiana non viene abbandonata, anzi rimane una realtà in maggioranza. Infatti, Pico della Mirandola, nel suo Discorso sulla dignità dell’uomo (titolo che già parla da sé, ritornando al discorso su chi sta al centro della vita), afferma ancora la creazione, che l’uomo nasce dall’amore di Dio, come coronamento di tutto l’universo, ma è doveroso notare il peso che dà alla libertà dell’uomo e alla capacità innata in lui.

L’ottimo artefice stabilì infine che, a colui al quale nulla poteva esser dato di proprio, fosse comune tutto quanto era stato concesso di particolare alle singole creature. Prese dunque l’uomo, questa creatura di aspetto indefinito, e, dopo averlo collocato nel centro del mondo, così gli si rivolse: “O Adamo, non ti abbiamo dato una sede determinata, né una figura tua propria, né alcun dono peculiare, affinché quella sede, quella figura, quei doni che tu stesso sceglierai, tu li possegga come tuoi propri, secondo il tuo desiderio e la tua volontà. […] tu, che non sei racchiuso entro alcun limite, stabilirai la tua natura in base al tuo arbitrio, nelle cui mani ti ho consegnato. Ti ho collocato al centro del mondo perché da lì tu potessi osservare tutto quanto è nel mondo.

Per l’umanista cristiano l’uomo è quindi un grande miracolo, dotato di libertà e di tutte le capacità necessarie per decidere di se stesso, e, se lo sceglie, per tornare a Dio.
Mi chiederete: non è forse vero? Certo! Infatti, questo movimento, questo abisso di diversità rispetto al Medioevo, come ogni cosa, non è solo negativo o solo positivo.
Forse nell’abbassamento di se stessi, nella ricerca quasi ossessiva dell’umiltà che caratterizzava il Medioevo, l’uomo era arrivato a cancellare se stesso; forse spesso aveva annebbiato la ragione in una fede che aveva reso lui stesso totalitaria, dittatrice.
E d’altra parte come non denunciare un’estremizzazione della riscoperta delle capacità dell’uomo? Come non rimanere perplessi da un’illusione di autosufficienza, comprensibile nei Greci ma non dopo la venuta di Cristo? È da questa totale autosufficienza dal destino che nasce il “genio” inquietante, sconvolgente di Machiavelli. Nel XXV capitolo del Principe, possiamo trovare il completo ritorno al mondo greco, in quanto viene accantonata la Provvidenza cristiana in favore della Fortuna pagana, e in un certo senso un suo superamento:

Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iodico essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. E assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi che, quando si adirano, allagano e’ piani, rovinano gli arbori e li edifizi, lievano da questa parte terreno, pongono da quella altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede all’impeto loro sanza potervi in alcuna parte ostare. E, benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimento e con ripari e con argini: in modo che, crescendo poi, o eglino andrebbono per uno canale o l’impeto loro non sarebbe né sì dannoso né sì licenzioso. Similmente interviene della fortuna, la quale dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle: e quivi volta e’ suoi impeti, dove la sa che non sono fatti gli argini né e’ repari a tenerla.

E possiamo vedere ancora, nella lettera indirizzata a Francesco Vettori, scritta in un periodo nero della sua vita, esiliato dalla sua patria, il ritorno a questa concezione:

E poiché la fortuna vuole fare ogni cosa, ella si vuole lasciarla fare, stare quieto e non darle briga, e aspettare tempo che la lasci fare qualche cosa agl’huomini; […]

C’è un ritorno agli dei malvagi, anzi, al Caso devastatore, che colpisce gli uomini indiscriminatamente, come un fiume in piena, irresistibile. L’unica opzione dell’uomo è opporre se stesso, opporsi con la parte più alta di sé, la ragione, con la sua “virtù”, la capacità di ingegno di cui è stato dotato dalla natura benigna. E allora l’uomo non verrà oppresso dalle circostanze portatrici di pianto e dolore, se l’uomo si farà furbo, se l’uomo non userà anche lui un po’ di quella cattiveria maliziosa di cui è intessuto il mondo e quindi lui stesso.
Ebbene, se i Greci avevano trovato come soluzione l’accrescimento della bellezza dell’uomo, l’innalzamento della sua umanità, della sua grandezza, Machiavelli trova una scappatoia al destino maligno attraverso la malignità stessa. La vita ci schiaccia? Allora spostati! La fortuna ti investe come un fiume in piena? Allora costruisciti una barca e non farci salire nessuno per essere sicuro che, nel tirarlo in salvo, non ti butti in acqua! Con furbizia, avendo come sola regola l’utilità personale, il bene proprio, dritto verso la salvezza…da solo.
Il Principe è quindi un manuale tecnico e scientifico, perfettamente ed ordinatamente esposto, efficace e spaventosamente lucido, scritto a ??? con un’intenzione implicita di farsi riammettere in patria???, perché quella esplicita è di trattare di «che cosa è principato, di quale spezie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono.» In questo “opuscolo”, come lo chiama lui stesso, non fa altro che esporre nell’ambito del tema particolare della politica il principio della vita intera: guardare a nient’altro se non all’utilità rispetto a ciò che si vuole raggiungere nelle diverse circostanze, il che giustifica qualsiasi azione, qualunque pensiero, qualsivoglia parola. Lo slittamento dall’ideale, dal centro di questo, che è Dio, a se stesso è qui completo. Come Petrarca, Machiavelli ha procurato un’altra, e molto più spessa crepa nelle fondamenta del muro della storia e del cuore dell’uomo mettendo su diversi piani l’ideale e l’azione. La divisione tra politica e la religione, l’unica esplicita nel libro, nasconde una realtà ben più frammentata in tanti scompartimenti a sé. Proponendo a Lorenzo de’ Medici il modello del principe in Cesare Borgia, la cui unica pecca fu quella di essere sfortunato, scrive così:

Chiunque iudica necessario nel suo principato nuovo assicurarsi delli inimici, guadagnarsi delli amici; vincere o per forza o per fraude; farsi amare e temere da’ populi, seguire e riverire da’ soldati; spegnere quelli che ti possono o debbono offendere; innovare con nuovi modi gli ordini antiqui; essere severo e grato, magnanimo e liberale; spegnere la milizia infedele, creare della nuova; mantenere l’amicizie de’ re e de’ principi in modo ch’e’ di abbino a beneficare con grazia o offendere con rispetto; non può trovare e’ più freschi esempli che le azioni di costui.

Ed ecco che, nel capitolo XVIII, arriva al nocciolo della questione: essendo l’uomo ultimamente cattivo, ciascuno deve dedicare la propria vita al conseguimento dell’utile personale, senza lasciarsi ingannare dalle illusioni della religione, che distoglie l’uomo dalla praticità della vita e che gli fa credere che ci sia altro dalla realtà puramente percettibile.

Ma sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché elli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che fa per quello che si dovrebbe fare impara piuttosto la ruina che la pereservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parti professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, e usarlo e non usare secondo la necessità.

In questa frammentazione, l’uomo si ritrova imprigionato in un insopportabile dualismo, si trova esso stesso frammentato. È proprio Machiavelli a denunciarlo nella lettera che scrive a Francesco Vettori sopracitata: dopo aver descritto come tutto il giorno butta via il tempo in taverna, giocando insieme ai contadini, imprecando anche lui tra le urla dei rozzi, sopportando la situazione in cui la fortuna l’ha messo, scrive:

Così rinvolto entra questi pidocchi traggo el cervello di muffa, et sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi.
Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni reali et curiali; et rivestito con decentemente entro nelle antique corti degli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni, et quelli per loro humanità mi rispondono; et non sento per 4 hore di tempo alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tucto mi transferisco in loro.

Qual è quindi la vera vita Quella tra il popolino ignorante, tra i “pidocchi”, così infima e non esauriente o quella virtuosa, quella grande tra le pagine degli illustri antichi?

E concludiamo l’analisi dell’umanesimo proprio con queste parole di Machiavelli, da cui traspare l’abbandono totale di quei studiosi in un passato tanto stimato quanto lontano, ritrovandosi addosso il desiderio di riprodurlo e l’impossibilità del farlo. Non avrebbero potuto tornare alla grecità, o all’antica Roma, perché un fatto che entrò nella storia la sconvolse fin dalle fondamenta: la venuta di Dio sulla Terra.

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