«Semplice fatto umano farà
pensare sempre», scrisse Giovanni Verga nella prefazione alla novella L’amante
di Graminia inserita, come La lupa, nel 1880 nella raccolta Vita
dei campi.
Il contesto culturale in cui
visse l’autore fu quello del positivismo, in cui l’uomo era convinto che la
conoscenza scientifica avrebbe condotto l’uomo alla felicità, cioè al benessere
estremo, alla pace, cioè all’assenza di bisogno e di domande. Un’epoca in cui
l’anima umana viene trattata come un meccanismo, in cui si tenta di analizzare
scientificamente l’uomo in laboratorio; il metodo per conoscere esaustivamente
l’uomo è quello di un’analisi in laboratorio, è quello scientifico. «L’uomo
metafisico è morto» scrisse Emille Zola, non c’è più spazio per la domanda
leopardiana, per i valori manzoniani. Nasce l’uomo fisiologico. Il romanzo
contribuisce a questo tipo di conoscenza dell’uomo perché è un verbale
dell’osservazione dell’esperimento in cui si tenta di eliminare l’io
osservatore, che media e distorce. Verga, al posto di una tradizionale
formazione classica, impara dal naturalismo francese di cui legge tanto, ma
conserva la stessa commozione di Manzoni davanti al «fatto umano», ed è spinto
all’osservazione della realtà per poter conoscere il cuore umano, che quindi
diventa oggetto della sua produzione letteraria. Dai francesi quindi Verga
prende il metodo di scrittura, la tecnica letteraria: infatti, nell’idea di
letteratura come fotografia della realtà e come documento del cuore umano,
nasconde il processo creativo in modo che «l’opera d’arte sembrerà essersi
fatta da sé». In questa novità di scrittura si assiste a quello che viene
chiamato “metodo dell’impersonalità” per cui l’autore non interviene
direttamente nella vicenda proponendo il proprio giudizio, come invece è evidente
ne I promessi sposi di Manzoni, mettendo così in pratica la regressione
del narratore: esso assume il punto di vista, le categorie e la mentalità di un
personaggio interno alla vicenda oppure, come nel caso della novella La lupa,
di un personaggio corale appartenente al mondo decritto, come la gente del
paese.
Analizziamo ora, per mostrare
con un esempio tutto ciò che è stato precedentemente solo teorizzato, la
novella La lupa, storia tratta da un celebre episodio di cronaca del
tempo: narra l’uccisione di una contadina da parte del genero in seguito ad
un’incestuosa passione amorosa.
La protagonista non viene
presentata con il suo nome, ma con il soprannome che gli viene affidato dai
paesani: la Lupa. Un personaggio assolutamente anomalo rispetto al modello
femminile siciliano dell’epoca: alta, magra, florida anche se non più giovane,
dalla pelle non candida ma pallida come se fosse malata, dall’andamento non
grazioso ma «randagio e sospettoso», dagli occhi scuri come il carbone, molto
più provocatori degli occhi di Lucia Mondella, sempre abbassati dal grande
pudore. Ma, oltre all’aspetto fisico, è soprattutto il suo sistema di abitudini
e il suo comportamento a risultare assolutamente fuori dall’ordinario; la Lupa,
infatti, non frequenta i riti cristiani, anche se per mantenere le distanze da
un prete che «aveva persa l’anima per lei». La Lupa dimostra anche scarso
interesse per le consuetudini tradizionali: la sua travolgente passione non la
fa preoccupare del giudizio degli altri (al tempo molto determinante), tanto
che osa uscire di casa, lei che era donna, nell’orario tra il vespro e la nona.
Eccezionale si mostra anche nell’ambito lavorativo («[…] Maricchia stava in
casa ad allattare i figliuoli, e sua madre andava nei campi, a lavorare cogli
uomini, proprio come un uomo, […]») ed affettivo. Il rapporto che ha con la
figlia, infatti, si dimostra assolutamente asciutto, secco, ostile (da una
parte per la gelosia, dall’altra per la delusione), a tratti cattivo o
indifferente; sembra distante anni luce la figura della madre affettuosa
descritta ne I Malavoglia da Verga nella figura di Maruzza, che darebbe
l’anima e il corpo per i propri figli. La straordinarietà di questa figura è
ancor più evidenziata dall’accostamento con il personaggio della figlia, che di
contrasto rappresenta la tradizionale donna siciliana: una «buona e brava
ragazza», che cura il suo bambino, che sta in casa, che non mostra la sua
sofferenza piangendo silenziosamente e di nascosto.
Il realismo che accompagna
questa appassionata cura ai personaggi è evidente anche nell’elemento economico
che grava e condiziona molto la vita delle persone di ceto basso. I soldi sono
un altro movente delle azioni dei personaggi: infatti Maricchia sarebbe un buon
partito da maritare per il possesso di alcuni beni economici, se non avesse per
madre la Lupa («sebbene ci avesse la sua bella roba nel cassettone, e la sua
buona terra al sole […]»). Poi possiamo notare che Nanni accetta l’offerta
della mano di Maricchia solo dopo essersi accertato riguardo alla sua dote:
«Cosa gli date a vostra figlia Maricchia?». E infine, quando ormai Nanni sarà
avvinto dall’incontrollabile passione per la Lupa e chiede al brigadiere di
scacciarla di casa per poter non vederla mai più, la Lupa opporrà un motivo
legale rivendicando il possesso di una piccola parte della casa.
La tecnica della regressione
del narratore, non è utilizzata solo per la descrizione dei personaggi:
l’intera storia è narrata con gli occhi della gente del popolo, da cui i
personaggi si sentono osservati e giudicati. Questo è evidente nell’utilizzo
frequentissimo dei proverbi popolari («[…] la gente andava dicendo che il
diavolo quando invecchia si fa eremita.») e nella presenza corale ad alcuni
fatti come la piccola folla dei vicini e dei curiosi intorno al letto di Nanni
che si credeva morente. Lo stesso Nanni, nel suo grido esasperato che cerca di
resistere alla tentazione opponendo mille ragioni che ultimamente non reggono
alla passione, dirà: «Ora tutto il paese lo sa!».
Ma ad un’attenta analisi il principio
della regressione del narratore non potrà mai essere seguito in modo totalmente
coerente: l’autore infatti non potrà mai sparire completamente dalla sua opera,
perché la realtà non può prescindere da un io che la percepisca. Ciò è evidente
nella scelta volutamente operata da Verga di non descrivere alcuni momenti
della storia, che lascia invece impliciti e allusivi: il momento del consumo
carnale della passione amorosa, certamente anche per pudore, e quello
conclusivo dell’uccisione. Non si può ridurre la seconda scelta alla
giustificazione del pudore e del rispetto della sensibilità del lettore, perché
molti autori prima di lui hanno coltivato liberamente il culto del macabro. Per
capire il senso di queste scelte dobbiamo ricordare che l’oggetto dell’indagine
di Verga è il cuore umano: smette di scrivere nel momento in cui questo viene
negato, viene soppresso o diventa tanto misterioso da essere inafferrabile
inconoscibile con un’analisi dall’esterno.
Per poter esprimere al meglio
il cuore umano, nonostante la linea realista e la scelta della regressione del
narratore, l’autore siciliano utilizza, anche se in modo diverso dal passato,
la tradizione letteraria che lo precede: quello di Verga rimane un testo squisitamente
letterario. La scelta del nomignolo della protagonista richiama all’animale
simbolico della lussuria, decisamente in tema con la storia, che Dante incontra
all’inizio dell’ Inferno. Le «labbra fresche e rosse» della Lupa, che
ricordano una rosa, simbolo tradizionale dell’amore. La poetica dichiarazione
d’amore a Nanni: «Te voglio! Te che sei bello come il sole, e dolce come il
miele.» che commuove per la sincera semplicità e ingenuità d’espressione del
basso ceto sociale, che sapeva fare paragoni solo con ciò di cui aveva
un’esperienza quotidiana. La torbida descrizione del paesaggio siciliano
nell’ora tra il vespro e la nona, afoso, cioè caldo ma fastidioso, specchio
della tentazione amorosa che si sarebbe verificata a breve. L’utilizzo di
figure retoriche, come «trecce superbe», che in lontananza richiama le trecce
dell’Ermengarda di Manzoni, o come «occhi ardenti di lagrime e di gelosia».
L’amore viene qui descritto come «incantesimo», e la Lupa «era quasi malata»
per questa passione irrefrenabile; questa concezione di amore ha una lunga
storia alle spalle, che parte dalla letteratura greca. l’incestuoso amore di
Fedra nella tragedia di Sofocle, l’amore folle della regina cartaginese Didone,
il bramoso attaccamento di Francesca da Polenta per il suo Paolo, l’amore di
Laura che Petrarca descrive come un legame indissolubile che coglie l’uomo
impreparato e impotente, la compiacente passione di Rinaldo e Armida che riduce
la loro visione della realtà a se stessi, l’amore che rese Orlando folle per
Angelica, la malattia d’amore con cui la Fosca dello stesso Verga contagia la
sua vittima. Il collegamento con la letteratura si rivela così intimo perché lo
stesso fatto di cronaca incarna rusticamente e in fatti concreti e comuni ciò
che in millenni la letteratura ha descritto, andando così a svelare quanto le
parole che studiavano i colti e la realtà non siano mondi diversi, ma è l’uno a
servizio dell’altro.
Forse se Nanni avesse letto
Dante o Tasso avrebbe avuto degli strumenti adatti per affrontare questa prova
della vita in una prospettiva diversa, ma dato che non fu così, il pover’uomo
cercò quelle vie che poteva percorrere: la via legale e la via della Chiesa («
[…] e andò a chiedere aiuto al parroco e al brigadiere.»). Chiede di essere
allontanato e rinchiuso in carcere, si confessa, compie esagerati atti di
penitenza, ma nulla basta, nulla lo può sottrarre da quella maledetta
tentazione. Lo Stato è impotente, la Chiesa è impotente. «Semplice fatto umano
farà pensare sempre» abbiamo citato all’inizio. A cosa ha pensato Verga davanti
a questo “fatto umano”, e quindi cosa fa pensare a noi? Verga sbatte in faccia
a tutte le riduzioni dell’uomo da parte del positivismo questa realtà.
Contrappone all’uomo “fisiologico” l’uomo nella sua totalità, che è anche
irrazionale, che è anche una passione incontrollabile tanto da essere
devastante e distruttrice. Una passione non analizzabile, non scientificamente
quantificabile. Verga contrappone il mistero. Un mistero però ostile,
terrificante in quanto sconosciuto, non afferrabile, davanti a cui l’uomo non
ha speranza né adeguata compagnia.
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