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domenica 30 dicembre 2012

PARAFRASI CANTO VI - divina commedia, inferno


CANTO VI – PARAFRASI

Quando mi ritornarono i sensi, che perdetti
Di fronte alla pietà verso i due coniugi,
che mi sopraffece di dolore,

nuovi tormenti e nuovi tormentati
mi vedo intorno, comunque io mi muova,
e comunque io mi volga, e comunque io guardi.

Io sono nel terzo cerchio, quello della pioggia
Eterna, maledetta, fredda e pesante;
quantità e qualità non cambiano mai.

Grandine grossa, acqua sporca e neve
Si abbattono per l’aria tenebrosa;
la terra che riceve questo puzza.

Cerbero, belva crudele e deforme,
con tre gole latra come un cane
contro la gente che qui è sommersa.

Ha gli occhi vermigli, la barba unta e scura,
e il ventre largo, e le mani unghiate;
graffia, scuoia e squarta gli spiriti.

La pioggia li fa urlare come cani;
con un fianco si riparano l’altro dalla pioggia;
si rigirano spesso i miseri peccatori.

Quando li vide Cerbero, il grande animale,
aprì le bocche e ci mostrò le zanne;
non aveva un arto che tenesse fermo.

E la mia guida distese le spanne delle sue mani,
prese la terra, e con i pugni pieni
la gettò dentro le gole desiderose (di cibo).

Come quel cane che abbaiando brama (di mangiare),
e si calma dopo che ha mangiato il pasto,
poiché desidera e combatte solo per divorarlo,

così divennero quelle facce lorde
del demonio Cerbero, che stordisce
così tanto le anime che vorrebbero essere sorde.

Noi passavamo sopra le ombre che appesantisce
La greve pioggia, e poggiavamo i piedi
sopra le loro forme vuote, che hanno la parvenza di corpi.

Queste giacevano a terra tutte quante,
tranne una che si mise improvvisamente a sedere,
non appena ci vide passare davanti.

“O tu, che sei trascinato per questo inferno”,
mi disse, “riconoscimi se puoi:
tu nascesti prima che io morissi”.

E io a lui: “l’angoscia che tu hai
Forse ti tira fuori dalla mia mente,
cosicché mi sembra di non averti mai visto.

Ma dimmi chi sei, tu che sei collocato
In un luogo così pieno di dolore, e hai commesso un peccato così grande,
che, se un’altra può essere maggiore, nessuna è così spiacente”.

Ed egli a me: “la tua città, che è così piena
D’invidia come un sacco colmo che trabocca,
mi tenne con sé nella vita serena.

Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la colpa della gola che mi ha portato al danno,
come puoi vedere, sono prostrato dalla pioggia.

E io, anima triste, non sono qui sola,
perché tutte queste hanno una pena simile
per una colpa simile”. E non disse più una parola.

Io gli risposi: “Ciacco, il tuo affanno
Mi pesa così tanto che mi indice a piangere;
ma dimmi, se lo sai, a quale esito arriveranno

i cittadini della città divisa;
se ce n’è qualcuno giusto; e dimmi la ragione
per cui l’ha invasa tanta discordia”.

E quello a me: “Dopo una lunga lotta
Arriveranno al sangue, e la parte del contado
Caccerà l’altra con grave danno.

In seguito dovrà accadere che
L’altra prevalga nel giro di soli tre anni
Con l’appoggio di uno che si destreggi (tra le due parti).

Terrà la testa alta per molto tempo,
tenendo l’atra parte sotto gravi pesi,
per quanto essa se ne lamenti o se ne indigni.

I giusti sono due, e nessuno dà solo ascolto;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre scintille che hanno acceso i cuori”.

Qui terminò il discorso degno di lacrime.
E io a lui: “voglio che ancora tu mi faccia apprendere
E che tu mi faccia dono di più parole,

Farinata e il Tegghiaio, che furono così insigni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e il Mosca
E tutti gli altri che lottarono per il bene,

dimmi dove sono e fa che io sappia di loro;
che un grande desiderio mi incalza a sapere
se il cielo dà loro la sua dolcezza o l’inferno li avvelena”.

E quello: “Essi sono tra le anime più nere;
differenti colpe li tengono nel fondo dell’inferno con il loro peso:
se scenderai così tanto, là li potrai vedere.

Ma quando tu ritornerai nel dolce mondo,
ti prego di ricordarmi alla mente degli altri:
più non ti dico e più non ti rispondo”.

Incrociò gli occhi diritti in storti;
mi guardò per poco e poi chinò la testa:
cadde con essa come gli altri ciechi.

E la mia guida disse a me: “più non si risveglierà
Da qui fino al suono della tromba angelica,
quando verrà il potere nemico (all’inferno):

ciascuno rivedrà la triste tomba,
riprenderà la sua carne e il suo aspetto,
udirà ciò che rimbomberà in eterno”.

Trapassavamo così la sozza miscela
Delle ombre e della pioggia, a passi lenti,
parlando un po’ della vita futura;

così io dissi: “Maestro, questi tormenti
cresceranno dopo la grande sentenza (giudizio universale),
o saranno minori, o uguali?”.

Ed egli a me: “Ritorna alla tua conoscenza,
che dice, quando una cosa è più perfetta,
percepisce meglio il bene, e così il dolore.

Per quanto i dannati
non giungano mai ad una vera perfezione,
aspettano dopo il giudizio un essere più perfetto che prima di esso (del giudizio)”.

Noi aggirammo in tondo quella strada,
parlando molto di più di quanto riferisco;
venimmo al punto dove si scende:

qui trovammo Pluto, il grande nemico.

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